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domenica 18 maggio 2014

Cantos de Huexotzingo (Pronuncia: Huesciotzingo). Capitolo terzo

Capitolo  Terzo
Napoli
Valle Caudina
Così, finalmente, arrivò il giorno in cui sarei andato a Napoli ma con uno scopo molto diverso da quello che mi spingeva ad andarci con Enzo e Paolo: questa volta andavo ad incontrare la donna che mi era stata destinata e gli elettrotreni della  Valle Caudina, rumorosi, brutti e scomodi, divennero silenziosi, bellissimi e comodissimi.
A quella età andare a Napoli da solo (da solo ci andavo per la prima volta) aveva per me  un po’ il sapore, la vivacità, la carica di un avvenimento; andarci con gli amici costituiva un’esperienza avventurosa perché con loro si compartivano i timori, le incertezze, le decisioni e soprattutto le indecisioni, si compartiva tutto e ci si infondeva forza vicendevolmente; da solo era tutta un’altra storia.
Come mi accade da sempre in circostanze di particolare stress emotivo, durante le quali la mia percezione dello spazio/tempo subisce strane distorsioni, il viaggio mi apparve interminabilmente lungo, ma allo stesso tempo incredibilmente breve.

Il treno della Valle Caudina attraversa luoghi molto belli per arrivare a Napoli, fatta eccezione per l’ultimo tratto che va da  Cancello alla stazione di Napoli Centrale.
La pianura però inizia da S. Felice a Cancello, pochi chilometri prima di un altro paese che si chiama Cancello, ma è da quest’ultimo che il paesaggio assume un aspetto più metropolitano. 
Da Benevento a S. Martino e fino a Arpaia, si attraversano invece le campagne fertilissime ed i boschi selvaggi di quella parte dell’altopiano sannita, non a caso i latini definivano terra felix quelle estensioni, insieme a quelle  partenopee.
Sull’altopiano sannita le boscaglie si alternano continuamente alle campagne, poi  il treno passa aderente alle pendici del monte Taburno, quello che forma le estremità (nel senso di piedi) della Dormiente del Sannio fino ad Arpaia, quindi inizia la discesa attraverso la barriera rocciosa che si erge dai limiti della pianura del golfo di Napoli e che  forma il lembo dell’altopiano sul quale si trova  parte della  provincia di Benevento.
Questo alternarsi tra paesaggi morfologicamente eterogenei ha uno strano effetto sul viaggiatore che li percorre e che li osserva dall’interno di un treno, almeno lo aveva per me.
Sono passati moltissimi anni dall’ultima volta che ho attraversato quei luoghi con la Valle Caudina, eppure quelle sensazioni, quelle impressioni, restano ancora vivide nella mia memoria. Ancora adesso ricordo quando, passando di continuo da un  paesaggio organizzato ed ordinato dalla mano dell’uomo ad uno selvaggio, avevo l’impressione di essere stato proiettato lontano dalla civiltà che pure riaffiorava repentinamente, quantunque inaspettatamente fuori da essi, come per magia, creando un contrasto straordinario.
Mentre sembrava di essersi irrimediabilmente sperduti in chissà quale parte dimenticata del pianeta ed il treno restava l’unico legame tangibile e rassicurante con la civiltà, appariva qualche manufatto a dimostrare la presenza dell’uomo, che però scompariva immediatamente come se fosse stato assorbito da un’altra dimensione.
Lo stesso accadeva con le Stazioni dei piccoli paesi che si trovavano sulla tratta (Tufara, S. Martino valle Caudina, Arpaia), alcune completamente invase dalla vegetazione, le quali sembravano spuntare dal nulla come manifestazioni arcane e solo quando il treno aveva quasi ultimato la sua frenata.
Ogni volta che il treno si apprestava a fare la sua sosta in una di quelle stazioni, sembrava che stessimo atterrando in un Continente diverso, che avessimo terminato una traversata oceanica; l’impressione era la stessa che si percepisce nei Paesi tropicali, dove i centri urbani sono immersi nella vegetazione, che sembra conquistarli, includerli, perché sovrana,  prorompente ed incontenibile.
Potrebbe sembrare un po’ forzata questa descrizione, nondimeno il paragone con i Paesi tropicali, calza perfettamente; inoltre questi paesini, che pure sono molto simili tra loro, mostrano differenze sostanziali in tutti i sensi: un esempio emblematico è la differenza di entità che si avverte tra la stazione di Arpaia e quella di S. Maria a Vico, le quali sembrano gli avamposti di due civiltà diverse.
La prima è situata sul lembo dell’altopiano a cui accennavo prima e la seconda al di sotto di esso, cioè all’inizio della pianura del golfo di Napoli: sono quelle alture che sembrano delimitare  nettamente due mondi, due civiltà, due culture.

Arpaia/S. Maria a Vico è il tratto più lungo che percorre l’elettrotreno (non so se è così ancora oggi), circa venti minuti senza stazioni intermedie, quasi tutti in discesa; questo percorso si svolgeva costeggiando con una certa lentezza il fianco del rilievo fin quando non si arrivava in pianura.
Quei venti minuti sembravano un viaggio cosmico, perché quando finalmente si arrivava a S. Maria, si percepiva  immediatamente di trovarsi in un contesto  che aveva subito un’influenza culturale diversa da quella che si avvertiva e si percepisce ancora oggi ad Arpaia.
Arpaia è condizionata dalla cultura sannita, prevalentemente alpestre, pastorale, mentre da S. Maria si iniziava ad avvertire (probabilmente è così ancora oggi)  l’influenza della cultura più mediterranea; le stesse condizioni climatiche sembravano accentuare o contribuire a queste differenze.
Spesso, in particolare durante i mesi freddi, fino ad Arpaia si viaggiava nella nebbia e con una umidità gelida e penetrante, oppure in un cielo plumbeo e piovoso.
Quando non si poteva viaggiare seduti per l’affollamento e si sostava nello spazio adiacente alle portiere, oppure si occupavano i posti a sedere vicino alla porta scorrevole che separava il vano dell’uscita, ci si raggomitolava come porcospini e si attendeva con ansia il momento della partenza del treno, per sentirsi investiti dall’ondata di calore che veniva dall’ambiente più interno.
Approssimandosi a S. Maria e soprattutto a S. Felice a Cancello (poco distante) il tempo migliorava, il sole trovava la forza di perforare le nubi e la maggiore quantità di luce dava la sensazione di sentirsi più vivi.
Davvero si viveva l’illusione di uscire dall’inverno di un Paese temperato e di entrare nell’eterna estate di un Paese tropicale; l’espressione dei compagni di viaggio sembrava diventare man mano più allegra, più  euforica, mentre ci avvicinavamo alla pianura, a volte sembrava addirittura di sentire l’odore del mare del golfo già a S. Felice.
Così si vanificava la sensazione dell’inverno inesorabile e veniva relegata nel ricordo di un passato immediato che diventava tanto più lontano e remoto, quanto più fredda e penetrante era stata la nebbia e l’umidità che avevamo appena lasciato: … quella gelida, glaciale umidità.

Viaggiavo, dunque, in un treno silenzioso, bellissimo e comodissimo che mi portava ad incontrarmi con la donna della mia vita; era estate e questa stagione è portatrice di vivacità e dinamismo dovunque.  
Era  lontano, ancora lontano il freddo del mio inverno con Lisa, ed io stavo andando a raccogliere il dono degli dèi: “non si devono rifiutare i doni degli dèi, quelli che essi stessi solo donano e che nessuno può acquisire con la volontà”. (1)
A  S. Felice mi sembrava già di sentirla; lei nemmeno sapeva  dell’esistenza di questo paesino, ma io mi ritrovavo ai margini di un contesto che in qualche modo mi sembrava le appartenesse, così ne avvertivo fortemente la presenza, come se una parte di lei vivesse lì: in quegli alberi, in quelle case, in quelle strade.
I pensieri che si erano affollati nella mia mente con la prepotenza di geyser, il giorno in cui mi sedetti sulla cuspide del monte d’Argento, riaffioravano adesso con lo stesso vigore, ma questa volta non con la stessa tumultuosità, e si alternavano a riflessioni contemplative sulla natura dei luoghi che attraversavo, sulla loro storia, sui grandi pensatori, guerrieri, avventurieri, che li avevano vissuti durante il tempo.
A quanti momenti di piaceri e di entusiasmi, a quante sofferenze, dolori, angosce avevano assistito inermi ed indifferenti quei luoghi?  Se “il susseguirsi ed il precedersi degli eventi è illusorio”, se “il passato dipende dal futuro tanto quanto il futuro dipende dal passato”, essi erano ancora lì, prigionieri del tempo come me,  forse per questo mi sembrava di percepirli.
Pensare mentre viaggiavo, soprattutto navigando tra pensieri in apparenza contrastanti, mi preparava all’incontro con Lisa, mi fortificava, mi rallegrava; Sofocle diceva che “il pensare è di gran lunga la prima felicità”, ed io stavo pensando, quindi ero felice.
Ma poi si contraddiceva dicendo: “la vita più gioiosa consiste nel non pensare a nulla”; (2) non mi trovavo d’accordo con questa sua ultima affermazione, forse non ancora, perché avvertivo tangibilmente un forte senso di felicità e di euforia incontrastabili.
Ero invece molto più in sintonia con l’affermazione di Seneca: “considera ogni giorno come una vita”, (3) perché da quando avevo conosciuto Lisa, ogni giorno aveva per me il valore di una intera esistenza e quel giorno, in particolare, mi sembrava di viverne più di una parallelamente.
A Cancello mi sembrava di trovarmi già alla periferia  della metropoli perché appena oltrepassata la stazione, ci si immetteva nel doppio binario della confluenza nazionale; da quel momento il treno aumentava notevolmente la sua velocità, tanto da dare l’impressione che si sarebbe disintegrato da un momento all’altro, e non faceva altre fermate fino a Napoli.
Eravamo usciti dai magnifici paesaggi selvaggi e per lunghi interminabili quindici minuti, incrociavamo treni di lunga percorrenza attraversando un continuum di abitazioni di ogni tipo, la cui concentrazione aumentava mano a mano che ci avvicinavamo alla metropoli.
Mi sentivo già con lei quando apparve il grattacielo della stazione di Napoli, ma il treno si apprestava a fermarsi perché non era ancora libero il binario di accesso, cosa che accadeva di frequente perché si prediligeva il passaggio di convogli più importanti, ma questa volta, quella sosta inutile alla quale ci preparavamo mi risultava insopportabile: … possibile che gli addetti non capissero che il mio appuntamento doveva avere la precedenza su tutto?
Poi mi sembrò che se ne fossero resi conto perché la sosta durò solo qualche minuto e non fu neanche totale, nel senso che il treno aveva solo rallentato a passo d’uomo; evidentemente, data l’ora (dovuta al ritardo), il conducente aveva capito che non ci avrebbero fermato del tutto e finalmente entrammo nella Stazione.

Poco dopo salivo su di un  135 nero inverosimilmente colmo, anzi letteralmente traboccante  di persone: io viaggiai, con altri, sul primo gradino, per due lunghissime fermate, con la portiera aperta e tenendomi aggrappato al sostegno posizionato al centro degli stessi gradini: era la prima volta che facevo una simile esperienza.
Era la mia prima volta, per me che venivo da una città di provincia ordinata, tranquilla e calma, che mi immergevo in maniera così profonda in quello che mi appariva come un contesto caotico, chiassoso e schizofrenico. 
Impiegammo circa tre quarti d’ora per arrivare alla clinica Pascal, poco meno di quanto avevo impiegato per arrivare a Napoli con la Valle Caudina.
Avevo chiesto ad un passeggero di indicarmi la fermata, perché era impossibile arrivare vicino al conducente, tanto era la ressa, e poco prima di arrivare fui avvertito, così guardai fuori col cuore che batteva come un tamburo e vidi  Lisa con Davide alla fermata di fronte che guardavano verso l’autobus.
Notai subito Lisa, d’altra parte sarebbe stato impossibile il contrario, ma la vidi diversa: indossava una parrucca di capelli rossastri che le arrivava fino alle spalle.
Quasi non la riconoscevo, se non fosse stato per Davide che le teneva la mano, ma poi i suoi tratti inconfondibili, unici, si rivelarono, si imposero alla mia vista e per un attimo mi sembrò che non fosse passato neanche un secondo da quando ci eravamo lasciati a Scauri.
Mi sorrideva mentre attraversavo la strada per raggiungerla; dalla sua  espressione  dedussi  che  non  era  cambiato nulla tra  noi, anche Davide sorrideva contento di rivedermi; sentii inequivocabilmente che mi appartenevano.
Le domandai subito il motivo di quel cambiamento, lei rispose chiedendomi se mi piaceva.   Le dissi che non mi dispiaceva ma che preferivo vederla con la sua magnifica chioma, e lei tolse immediatamente quell’artefatto, così mi riapparve la splendida la leggiadra Squaw indiana che mi aveva abbagliato la prima volta che la vidi procedere fiera ed altera verso il gruppo che l’aspettava.
Quel cambiamento inaspettato però, mi aveva scosso e per una frazione di secondo infinitesimale ma incidente, si affollarono nella mia mente pensieri di ogni genere: qual’era il messaggio subliminale che voleva trasmettermi occultando e trasformando una parte molto importate della sua persona?  Voleva forse dirmi che lei non era solo quello che io avevo visto? 
Voleva trasmettermi un aspetto diverso della sua sensualità modificando la sua immagine con una capigliatura di forma e colore diverso?  soprattutto col rosso che è, appunto, un forte richiamo alla sensualità;  che cos’altro era, dunque, oltre quello che avevo visto?
Infine optai per la spiegazione più semplice e convenzionale: tutte le donne, come diceva Pitigrilli, (4) almeno una volta nella vita si tingono i capelli oppure indossano una parrucca, per pura, naturale e banale vanità, e questa era la volta di Lisa.
Restava  tuttavia difficile per me accettare questa tesi perché ne ravvisavo un forte  contrasto con la sua natura colta e  raffinata, con le sue tendenze politiche ed etiche di sinistra progressista: Lisa frequentava il liceo classico di matrice marxista Gian Battista Vico, il quale  aveva fama di essere il più avanguardista ed anche il più spregiudicato di Napoli e della Campania.
In ogni modo questi pensieri non avevano tanta importanza, ero con lei, sentivo che il suo amore irradiava verso di me, mi sembrava che tutto ciò che ci circondava, era lì per noi, in funzione di noi, non poteva esistere senza di noi: era l’amore che da noi emanava che ne giustificava ed esaltava l’esistenza.
Quella giornata passò velocemente girovagando nei dintorni e ricordando il tempo, anzi una intera vita, trascorsa insieme a Scauri; poi lei e Davide tornarono a casa ed io andai a pranzare in una pizzeria vicino, nella quale sarei tornato spesso in futuro.

Si era fatta sera ed era arrivata la mesta ed oscura ora del distacco, resa ancora più malinconica ed oscura dalla consapevolezza del fatto che era solo la prima di chissà quante atre, ed io ero tornato alla stazione, la quale però, adesso, mi appariva insopportabilmente triste, vuota ed  inutile, oltre ché  infinitamente lontano da lei.
L’ultimo treno della Valle Caudina per Benevento partiva da Napoli alle 20.55 ed arrivava alle 21,30 circa, dopo c’erano solo altre due possibilità, ma con i treni delle Ferrovie dello Stato, i quali però, impiegavano due ore e tre quarti abbondanti per arrivare a Benevento: un viaggio interminabile.
Questi treni facevano un tragitto completamente diverso: passavano da Aversa, seguendo la linea nazionale che portava verso il nord, poi Caserta e  Maddaloni, ed infine si inoltravano all’interno, allacciandosi alla tratta Roma Bari, sul cui percorso ci sono i paesi della provincia di Benevento:  Solopaca, Telese, Ponte Casalduni e finalmente la capitale sannita.

Quella sera, come tante altre che si sarebbero succedute, arrivai alla Stazione con un congruo anticipo che  trascorsi incollato al telefono durante il tempo di attesa del treno.
Sarebbe alquanto noioso trascrivere quello che ci dicevamo in così tanto tempo e tutte le volte che le telefonavo dalla stazione, eppure ogni volta quel tempo sembrava inaccettabilmente breve, tanto che spesso perdevo l’ultimo treno della Valle Caudina per prolungarlo ed arrivavo a Benevento nientemeno che alle due della notte, con l’ultimo treno delle Ferrovie dello Stato.








































Bohémienne
Era cominciato il mio peregrinare tra Napoli e Benevento, che sarebbe durato un anno e mezzo circa, durante il quale vivevo più a Napoli che a Benevento.
Durante i primi mesi, ossia da agosto fino alla fine di settembre, per stare il più possibile con lei e vicino a lei, mi trattenevo a Napoli per due o tre giorni di seguito dormendo in strada, all’aperto,  sulle panchine di qualche piazza del Vomero, quando naturalmente le condizioni atmosferiche lo permettevano; raramente dormivo in qualche albergo di infima categoria, e quindi di basso costo, nei dintorni della stazione.
Di tanto in tanto per concedere a qualcuno l’opportunità di dormire decentemente per una notte,  ripartivo la stanza con qualche vagabondo che mi capitava di conoscere dormendo sulle panchine.
Qualche volta incontravo qualcuno che aveva perso l’ultimo treno per tornare a casa e che di fronte alla prospettiva di passare la notte in strada,  si accontentava di ripartire le spese della stanza con uno sconosciuto. 
Più spesso invece incontravo persone che non avevano nulla, persone alle quali dovevo anche offrire un panino perché non mangiavano da giorni.
In quel periodo evitavo di disturbare le mie zie, due sorelle di mia madre che vivevano nei pressi della stazione ferroviaria ed al Vomero. Lo evitavo anche perché avrei dovuto assoggettarmi ad orari e regole che mi avrebbero limitato, ma successivamente iniziai ad accettare la loro ospitalità perché con l’avvento dell’inverno diventava troppo pesante dormire all’aperto, anche se per proteggermi dal freddo della notte andavo a cercare riparo sulle  panchine delle stazioni della metropolitana.
Inizialmente sceglievo le stazioni dei rioni più eleganti della città perché meno frequentate dai personaggi equivoci e pericolosi della notte; andavo in quella di piazza Amedeo, per esempio, vicino alla quale c’è la funicolare che la collega al Vomero e quindi più comoda per arrivare da Lisa, ma nella quale era quasi impossibile pernottare, anche perché troppo vicina alla superficie e quindi fredda.
Trascorsero così numerose ed interminabili notti praticamente all’addiaccio, dormendo al massimo due o tre ore, fin quando fui costretto a scegliere la stazione metropolitana di piazza Garibaldi la quale, trovandosi al di sotto della superficie della stazione centrale, era particolarmente protetta e calda. Per questo era diventata un vero e proprio dormitorio nel quale si incontrava gente di ogni tipo; inoltre, fino alle tre del mattino era controllata assiduamente dagli agenti della  Polfer (polizia ferroviaria).
C’era però, qualche controindicazione: la prima è che si trovava molto lontana dal Vomero, ma questo non era particolarmente importante, la seconda era che fino alle tre circa del mattino si poteva dormire sulle panchine, ma non distesi, o non completamente, altrimenti interveniva la polizia, ma solo per svegliare, perché fino a quell’ora c’era ancora traffico ed era possibile che ci si fosse  appisolati per aspettare qualche treno.
Si dormiva quindi, con un solo occhio chiuso, per evitare di essere tentati di stendersi, ma anche per il vociare dei viaggiatori e per il passaggio continuo di treni rumorosissimi, ma si dormiva, perché lì almeno non c’era il timore di essere aggrediti durante il sonno.   
Il problema vero si presentava dopo le tre del mattino perché a quell’ora la sorveglianza era allentata, ma era diminuito drasticamente anche il traffico di treni e passeggeri e finalmente ci si poteva distendere, … se si riusciva ad accaparrarsi un’intera panchina.
A quell’ora la tentazione di abbandonarsi alla fase REM era fortissima ed incontrollabile, neanche la paura dell’aggressione era sufficiente a resisterle, così inevitabilmente si scivolava nel sonno profondo.
Questa fase durava mediamente un’ora e mezza, prima dell’avvento di qualche agente della polfer per il quale adesso quelli che dormivano erano diventati vagabondi senza fissa dimora, non essendoci più treni da aspettare fino alle sei del mattino; così eravamo svegliati con uno scossone, non sempre  garbato, anzi spesso violento, che ci ridestava di soprassalto e ci costringeva ad andare via.
Io ero giovane e forte e la mia resistenza non conosceva limiti, inoltre per me restavano comunque episodi occasionali, mi alzavo quindi di scatto, impressionando il poliziotto, e spesso lo rimproveravo per i modi, ma lo facevo soprattutto per gli altri, gli habitué, i veri vagabondi senza dimora che vedevo alzarsi con  fatica  e  barcollando,   indeboliti  dalla  vita  bohémienne.
Qualche volta ho rischiato di essere arrestato, ma ho anche trovato poliziotti comprensivi ai quali dispiaceva di essere costretti a svolgere quell’ingrato compito, però c’erano le telecamere alle quali non potevano sottrarsi.

Frequentando assiduamente la stazione centrale di Napoli, già nell’autunno di quell’anno mi ero fatto diversi amici: erano prevalentemente giovani studenti come me, di buone famiglie, i quali trascorrevano le loro ore libere adoperandosi nella caccia delle ragazze straniere che venivano a visitare la capitale partenopea ed a cercarli, attratte dal fascino dell’amante latino.
Come ho già avuto modo di accennare, quella era l’epoca dei figli dei fiori: gli hippy, che professavano, tra l’altro, l’amore libero e di ragazze nord europee in cerca di avventura ne arrivavano in quantità a Napoli.
Di tanto in tanto qualche amico mi invitava a pranzo a casa sua e qualcun altro a dormire, ma ormai accettavo sempre più spesso l’ospitalità delle mie zie e dei miei cugini, più o meno miei coetanei; dagli zii ero trattato come un loro figlio e quando seppero che frequentavo Napoli, mi proibirono di farmi ospitare dagli amici e mi rimproverarono, scandalizzati, per aver dormito all’aperto.
Zia Lina era la primogenita delle sorelle di mia madre, abitava vicino alla stazione centrale con zio Nicola, suo marito, ed era la  madre di Sandra e Giovanna, le mie cugine che avevano assistito alla lite di Scauri. 
Zia Alba invece abitava al Vomero, nelle vicinanze di piazza Arenella con zio Nino, suo marito ed i suoi tre figli: Ada, Pino e Rosanna. 
Più spesso mi fermavo da zia Lina, perché le mie cugine conoscevano Lisa e volevano seguire da vicino l’evolvesi del nostro rapporto; partecipavano con entusiasmo alle  mie esultanze, ai miei dubbi, alle mie pene, perché avevano capito che la nostra era una storia molto particolare, molto forte.

Verso la fine dell’autunno, con  le scuole già aperte, la situazione mutò, ormai stavo a mezza pensione a casa delle mie zie; mezza nel senso che non era tutti i giorni, ma piena perché pranzavo e dormivo da loro. 
Qualche volta Lisa ed io ci davamo appuntamento a casa di zia Lina perché a Lisa  faceva piacere incontrarsi con le mie cugine.
Spesso andavo a prenderla all’uscita del liceo ed andavo a pranzo a casa sua, dove il nonno Rodrigo preparava anche per me; la madre tornava dal lavoro dopo le 17.

La nonna Eleonora, invece, era sempre meno presente e meno autosufficiente, la sua memoria peggiorava di giorno in giorno, ormai non riconosceva più neanche i suoi figli ed i suoi nipoti, ma non ha mai smesso di riconoscere suo marito, neanche per un istante, fino alla fine.
Che uomo eccezionale quel vecchio!  Accudiva sua moglie in tutto, anche nel darle da mangiare, cambiarle e lavarle gli indumenti, come con un bimbo, perché anche le sue funzioni fisiologiche erano compromesse.



















Controversie  ideologiche
«Nel momento in cui la stessa esistenza del pianeta è in pericolo, il ruolo di un poeta o della poesia possono sembrare ridicoli.
Il Movimento è la cresta di un'onda più profonda, l'apparizione di una coscienza più larga, una coscienza più biologica che politica. Una nuova percezione del politico, appare più lentamente, indissociabile dall'ecologia.
La percezione ideologica del politico, il marxismo, non offre più alternative di quante ne offra il capitalismo di fronte al disastro biologico che ci minaccia.
Ciò detto, dato che i poeti amano correre nei boschi e rotolarsi nell'erba, è normale che siano i primi a sentirsi coinvolti dalla violenza sulla natura ricoperta di escrementi di robot».
Allen Ginsberg:
Pensieri raccolti da Pierre Joris, per la rivista Actuel, nel 1971.

Nell’inverno che seguiva i ragazzi degli ultimi anni del suo liceo organizzarono uno sciopero al quale Lisa voleva partecipare; io avevo posto il mio veto alla sua partecipazione per gelosia perché presupponeva l’occupazione dell’istituto per due o tre giorni e notti, ma lei fece di tutto per convincermi che era suo dovere partecipare.
Così, per prospettarmi come moderno ed evoluto, mi lasciai convincere ed acconsentii.

Come ho accennato all’inizio, in quel tempo l’occidente era condizionato in maniera determinante dall’ideologia comunista la quale attecchiva  prevalentemente in quella parte della gioventù più acculturata che, mancando di esperienza e di una visione più aperta delle vicende, ma soprattutto della natura umana, era da essa completamente plagiata.
Lisa apparteneva a quell’ideologia, anche lei come i suoi compagni, era convinta che il comunismo fosse la forma ultima e più evoluta di governo e manifestava la certezza che fosse iniziata l’era dell’affermazione planetaria e predestinata di quel pensiero.
Anche lei non sembravano affatto rendersi conto di quanto fossero manovrati da menti politiche infinitamente più sofisticate, evolute,  prive di scrupoli e da ottusi vassalli come i suoi insegnanti, tutti rigorosamente comunisti.  
Questi giovani, pur anelando ai cambiamenti radicali influenzati dalle stesse spinte esistenziali caratterizzate prevalentemente dagli atteggiamenti anticonformisti e ribelli che erano alla base del movimento della beat generation,  diversamente da questi non potevano o non volevano accettare tale radicalità fino all’estremo perché, con ogni evidenza, presupponeva una inversione di rotta totale e senza ritorno.
Io, al contrario, come ho accennato in precedenza, ero ideologicamente un hippy, un figlio dei fiori, ero molto vicino alle filosofie orientali; non riconoscevo un partito che aveva confezionato un’idea per me, io ero libero per definizione e ritenevo l’ideologia comunista una condizione transitoria, un provvisorio passaggio di stato. 
Gli hippy non si identificavano e non riconoscevano la paternità o la sottomissione ad un’ideologia politica, non cercavano e non avevano necessità di un capo in quanto essi stessi erano espressione di libertà, di compassione e di rispetto per le altrui esigenze. 
La presunzione dei giovani impegnati di sinistra, così si definivano allora, di essere nel giusto al di la di ogni dubbio e di ogni ragione, li rendeva penosi e ridicoli ai miei occhi, al pari degli integralisti islamici o cattolici.
Epitteto diceva: “non sono le cose ad influire sull’animo umano, ma la convinzione che noi abbiamo di esse”(5), e Lisa aveva la stessa presunzione che avevano i suoi compagni di liceo; impiegai poco per convincermi che in effetti il loro era un vero e proprio fanatismo politico.
Dell’ideologia comunista io accettavo genericamente i principi di base ma la mia sensibilità ecologica, trasmessami dal movimento hippy, costituiva la prima e forse più importante critica a quel sistema per il quale questo aspetto non rivestiva la benché minima importanza.
Io mi trovavo in assoluta sintonia con quello che aveva già riconosciuto Ginsberg  a proposito della “percezione ideologica del politico”, quando affermava che  “il marxismo, non offre più alternative di quante ne offra il capitalismo di fronte al disastro biologico che ci minaccia”.
Notavo, inoltre, che al di la delle propagande tendenziose  e per me farisaiche che in quei tempi ci erano propinate con bombardamenti continui attraverso tutti i mezzi di comunicazione, il comunismo era eccessivamente limitante della libertà e dei diritti individuali, anche perché assegnava allo Stato la funzione inaccettabile di padre padrone assoluto ed infallibile per definizione.

Lei ovviamente non era d’accordo con le mie interpretazioni, ancora meno lo era con la mia maggiore affinità ideologica con i figli dei fiori; questo costituiva per me motivo di profondo sconcerto, forse avrei dovuto valutare con maggiore lungimiranza le nostre divergenze concettuali ed attuare una diversa strategia per la costruzione del nostro futuro comune, o addirittura avrei dovuto proporre di concederci un periodo di riflessione. 
Ma l’ipotesi di allontanarmi da lei col rischio di perderci, non era per me neanche immaginabile; in ogni caso Lisa non partecipò a quello sciopero, non perché non lo volessi io, ma perché glielo impedì sua madre. 
Intanto però, tra noi si era creata una grave frattura che avrebbe costituito la base per futuri disaccordi, alla quale io non diedi la giusta valenza, la giusta rilevanza, e probabilmente neanche lei,  ma che si era insinuata come un silent killer.
Non eravamo ancora sufficientemente maturi per non lasciarci influenzare dalle divergenze ideologiche; se quell’episodio si fosse verificato un decennio dopo, probabilmente non avrebbe avuto le stesse ripercussioni.
D’altra parte quelle divergenze non erano cosa da poco, presupponevano una diversità strutturale profonda, una differenza  di impostazioni e di programmazione radicale.
In ogni modo la spinta irrazionale, quella del mondo inconoscibile di Kant era, e per ora restava, prepotente, soverchiante rispetto alla frattura, … almeno per me.






Groddek
Verso la fine di quell’inverno, all’età di 18 anni,  mi ammalai di endocardite reumatica, un’affezione molto grave a quell’epoca che mi costrinse ad evitare sforzi fisici ed emozioni di qualunque genere per qualche settimana. 
Il mio cuore si era fermato per metà, avevo avuto il blocco del ventricolo sinistro e qualunque azione mi costava fatica;  mio zio Lillino, il medico ricercatore che mi curò ed al quale debbo la mia sopravvivenza e la mia guarigione, dopo aver visto le analisi cliniche mandategli da mio padre, telefonò per dire che avrei dovuto restare fermo il più possibile, avrei dovuto evitare qualunque sforzo e che mi avrebbero dovuto portare da lui, ad Avezzano, in provincia dell’Aquila, quanto prima.
In quel Paese rimasi ospite a casa sua per 15 giorni, durante i quali mio zio, conoscendo il forte legame che avevo con Lisa e per ridurre la sofferenza derivante dal distacco, mi disse di usare il telefono per tutto il tempo che volevo per comunicare con lei.
In quei giorni fui vivisezionato, mi sembrava di essere diventato una cavia da laboratorio; si susseguivano consulti medici a catena tra colleghi esperti in diverse discipline, perché avevo detto a mio  zio che se non fossi guarito completamente mi sarei suicidato.
Non potevo sopportare l’idea di vivermi un’esistenza a metà, perché il mio cuore aveva subito una ferita piuttosto seria, paragonabile a quella di un infarto e le probabilità che tutto tornasse come prima erano piuttosto remote.
Mio zio prese molto sul serio i miei propositi suicidi ed alla fine del vivisezionamento mi disse che avrebbe tentato una cura  d’urto sperimentale prevalentemente a base di salicilati e cortisonici in quantità massicce ma opportunamente equilibrate.
La cura presupponeva la mia piena collaborazione perché avrei dovuto restare immobile, a letto, per una decina di giorni, non dovevo neanche alzarmi per andare in bagno perché in quel lasso di tempo avrei corso grave rischio di embolia.
Mi disse che se avesse funzionato come previsto mi sarebbe rimasto solo un lieve rigurgito della valvola mitralica, ma ininfluente, che mi avrebbe accompagnato per il resto della vita.

Trent’anni dopo facevo un cheek up generale nell’unità coronaria dell’Ospedale Civile di Rapallo ed il referto medico, nella parte che riguardava l’organo cardiaco, diceva: lieve rigurgito della valvola mitralica, alla mia richiesta di maggiori spiegazioni, il medico mi disse che era ininfluente.

Passarono quei giorni ed anche gli altri durante i quali dovevo stare a letto, le mie condizioni miglioravamo visibilmente ma ero ancora ad alto rischio.
Erano trascorsi troppi giorni lontano da Lisa e senza di lei stavo molto male, il rischio per me aumentava; in quella circostanza poteva costarmi cara la sofferenza dovuta alla distanza, tuttavia era in subordine rispetto alla mia necessità di capire perché il mio cuore si era quasi fermato, o meglio, perché si era spezzato, lacerato, ferito.
Non potevo non cercare un nesso causale, una spiegazione plausibile; questa volta non si trattava di “rimuovere le scorie di una convinzione etica o concettuale errata”, come quando mi ritirai in meditazione nei tre giorni antecedenti la partenza per Scauri.
Questa volta ero convinto che gli effetti devastanti  della scoperta di differenze sostanziali tra me e Lisa, per me inaccettabili, erano stati direttamente riversati su una parte anatomica del mio corpo: quella che è simbolicamente più direttamente collegata ai sentimenti, cominciai quindi a scoprirne il nesso causale del quale andai a ricercare la conferma nel Libro dell’ES di Gorge Groddek, il medico tedesco, allievo di Freud, padre della psicosomatica, il quale diceva:  “ci può essere un momento nella vita di un uomo in cui quest’uomo si incontra con un proiettile, e non è un caso”.
La frattura ideologica verificatasi con Lisa mi apparve evidentemente correlazionata a quello che era accaduto al mio cuore, anzi a quello che stupidamente avevo permesso che accadesse al mio cuore.
























Zia Alba
Ero convinto, e lo sono tuttora, di avere scoperto la causa psicologica della mia endocardite, ma come dicevo ero ancora ad alto rischio, dovevo rivedere Lisa, sentire il contatto delle sue labbra, contemplare la sua espressione mentre mi guardava, sentirmi dire che per lei esistevo solo io, sentirmi ripetere quello che mi diceva spesso e cioè che senza di me sarebbe impazzita, avevo bisogno di queste cose, senza di esse diventavo ipocondriaco e depresso.
Così mio padre, che mi teneva sotto costante osservazione, consigliato da mio zio, al quale riferiva continuamente i mie stati fisici e psicologici,  nonostante avessi ancora dovuto aspettare qualche settimana per iniziare a muovermi gradualmente, scelse il male minore e  mi portò a Napoli per incontrarla a casa di mia zia Alba, al Vomero (non c’era ancora sufficiente confidenza tra i nostri genitori per poter andare a casa sua).
Dopo quasi un mese  finalmente la potevo rivedere, l’ansia mi divorava, ero convinto di trovarla ad aspettarmi da mia zia, invece si fece attendere alcune ore durante le quali telefonai ripetutamente a casa sua senza risposta; non esistevano ancora i telefoni cellulari e non avevo altro modo di rintracciarla. Infine arrivò solo quando ormai era tempo di tornare a Benevento ed accompagnata dalla madre, entrambe si presentarono visibilmente seccate.
Lisa e sua  madre sapevano benissimo i rischi che stavo correndo e dei quali mio padre le aveva rese edotte, sapevano che l’emozione di rivederla poteva costarmi cara se lei si fosse dimostrata distaccata in quel frangente particolare, ma non vi erano motivi di pensarlo.
Ciononostante, in quel delicato frangente,  Lisa mi trattò come un estraneo suscitando l’ira funesta di mio padre che riuscì a stento a contenersi per non trattare male entrambe, sebbene non trascurò di trasmettere la sua disapprovazione; qualcosa era cambiato tra di noi, ma non riuscivo a capire cosa e soprattutto perché.
Per il poco tempo che stettero da mia zia, Lisa restò praticamente attaccata alla madre, sembrava ipnotizzata, non parlava e mi guardava come se fossi portatore di una terribile malattia infettiva; tuttavia sentivo che avrebbe voluto avvicinarsi, ed in effetti per un po’ ci avvicinammo ma controllati dallo sguardo cattivo della madre che sembrava ridimensionare drasticamente il suo slancio, anzi lo ridimensionava di fatto, perché Lisa non si lasciò andare a nessuna particolare effusione.
Quello che avrebbe dovuto essere un piacevole incontro ed un’opportunità di avvicinamento tra i nostri genitori, perdipiù in territorio neutro o quasi, aveva assunto il carattere di una visita inspiegabilmente formale e come tale si svolse; tuttavia a nessuno era sfuggito il fatto che quella impronta era stata voluta e programmata dalla madre di Lisa e tutti, compreso me stesso, si interrogarono sulle possibili motivazioni, sebbene senza manifestarlo, per evitare di ferirmi.
Poi la mia visione interiore mi staccò dalla scena e potei osservare dall’esterno, come un estraneo, senza più coinvolgimenti emotivi, come uno spettatore che guarda un film: intuii che la madre di Lisa aveva usato in qualche modo la mia grave malattia per convincere la figlia che in ogni caso non avrebbe potuto avere un futuro con me perché il mio fisico era compromesso irrimediabilmente.
Intuii che aveva vilmente approfittato di quella occasione per tentare di distruggere  l’immagine e l’amore che Lisa aveva per me e non riuscivo a capire perché, per quale motivo lo facesse.
Per la prima volta vidi uno aspetto della madre di Lisa che non avrei mai immaginato: vidi un essere spietato e crudele che pensava solo a soddisfare il suo smisurato ego individualista e menefreghista, manipolando senza umanità e compassione le altrui vite.
Vidi una belva il cui solo scopo era disseminare dolore e sofferenza in esseri innocenti,  ingenui ed innocui come noi, e  mi sentii perduto.
Mio padre aveva compreso che avevo subito un colpo molto forte; tornando a Benevento, con estrema cautela, mi disse qualcosa che avrei fatto molto bene a prendere nella giusta considerazione perché avrei cambiato il corso della mia esistenza e mi sarei risparmiato una vita di dubbi, menzogne, umiliazioni e tradimenti.
Mi disse che Lisa non provava per me tutto l’amore di cui ero convinto, che era una fredda calcolatrice e che io per lei rappresentavo poco più che un semplice strumento; ma soprattutto dipinse sua madre definendola una donna arida e senza sentimenti, perché attribuiva a lei l’atteggiamento distaccato di Lisa, quantunque Lisa se ne fosse lasciata rendere complice. 
In ogni caso non lo potevo accettare e nemmeno credevo che la madre di Lisa riuscisse nel suo intento, perché avevo visto che Lisa era dibattuta ed ero certo che la sua spinta nei miei riguardi restava molto forte ed avrebbe avuto il sopravvento.

Con molta difficoltà assorbii l’ulteriore colpo inflittomi a casa di mia zia, ma il mio inconscio aveva deciso che dovevo sopravvivere, e non solo, aveva deciso che dovevo dimostrare a madre e figlia che ero immortale, come l’araba fenice che risorge dalle sue stesse ceneri: come avrei potuto dimostrarlo se non guarendo velocemente e totalmente al contrario di quanto tutti si aspettassero?  … e così accadde.
La mia guarigione fu eccezionalmente veloce, tanto che quando andai a fare la prima visita di controllo da un cardiologo di Benevento amico di mio zio, con stupore mi disse che non avrebbe creduto a quello che avevo avuto se non fosse stato per i referti di mio zio, perché non appariva assolutamente nulla.
La causa, ovvero le differenze sostanziali tra me e Lisa, tuttavia restavano,  ma avevo raggiunto la profonda convinzione che probabilmente sarebbe stata solo una questione di tempo e prima o poi Lisa avrebbe fatto un salto evolutivo ed avrebbe capito: avrebbe tagliato il cordone ombelicale che la teneva legata a sua madre, avrebbe anche guardato con maggiore senso critico le sue credenze ed avrebbe ceduto alla forza del mio amore per lei.

Gradualmente cominciavo però  a rendermi conto di essere molto meno maturo di lei dal punto di vista sentimentale, quantunque all’inizio del nostro rapporto fossi convinto del contrario perché la deludente esperienza vissuta durante la mia infanzia con la ragazzina alla quale ho fatto riferimento nel primo capitolo, mi aveva persuaso dell’inutilità di cercare l’amore di una donna. 
Cominciavo a rendermi conto della maggiore freddezza di  Lisa con riferimento al nostro rapporto, del suo maggiore controllo, della sua capacità di programmare a lungo termine, anche in relazione alle vicende sentimentali che ci riguardavano, cosa per me impensabile.
Il suo atteggiamento cominciava a mutare, forse anche perché io tendevo a soffocarla  con l’eccesso della mia presenza, dato che ero entrato nel vortice del dubbio e della gelosia e cominciavo a chiederle spiegazioni sul suo cambiamento alle quali lei opponeva sistematicamente il suo diniego, talvolta categorico,  nella migliore delle ipotesi si trincerava dietro una resistenza passiva che a me risultava oltremodo oltraggiosa.

Avevo sottovalutato la radicalità dei convincimenti politici di Lisa e le nostre profonde diversità strutturali si imponevano alla mia visuale con sempre maggiore forza. 
Esse erano causa di indicibile sofferenza per me perché quantunque mi sforzassi di indurla a riflettere, quantunque mi prodigassi nel farle notare le contraddizioni profonde ed evidenti di quello che professava, non riuscivo a smuoverla minimamente dai suoi convincimenti, non riuscivo a fare la benché minima breccia nella sua protervia.


















Volturno
Passava l’inverno e l’avvento della primavera sembrava infondere maggiore forza e maggiore disponibilità al dialogo, all’apertura, alla benevolenza; la mia malattia era già relegata nei ricordi, insieme con la frattura verificatasi qualche mese prima tra noi; la reciproca attrazione sembrava essersi rinnovata con maggiore vigore, a discapito del suo essere di sinistra ed in maniera inversamente proporzionale ad esso.
Probabilmente era riuscita a farmi accettare anche dalla madre.
Un giorno andammo a pesca con la mia famiglia in un luogo incantevole del fiume Volturno e Lisa ed io ci appartammo in una macchia tra due rigagnoli del fiume limpidi placidi e profumatissimi, che rendevano quel luogo simile ad un quadro d’arte naïf; eravamo completamente isolati, ma circondati da una natura splendida e luminosa, con i suoi dolci rumori, la sua gradevole voce determinata dallo scrosciare quieto dell’acqua, dal canto stridulo e melodioso degli uccelli e dal rumore squillante e chiaro provocato dai nostri movimenti sulle pietre arrotondate dal lungo viaggio nel greto.
Eravamo pronti per il nostro primo, puro atto d’amore e lei si distese in un letto di sabbia fine e dorata, circondato da rami di verde intenso e dal forte odore di resina che facevano da cornice ed isolavano da eventuali, quanto improbabili sguardi inopportuni.
Osservavo con bramosia le sue forme giovani,  nude ed eterne mentre lei, intimidita, volgeva altrove il suo sguardo, poi la curiosità ebbe il sopravvento ed anche lei guardò il mio corpo, atletico e forte,  per un attimo.
La sua curiosità mi insospettì e stupidamente commisi l’errore di chiederle se l’avesse già fatto; naturalmente lei ebbe un moto di stizza e così si dissolse l’incanto.
Quel giorno non accadde nulla, ma alcuni giorni dopo lei mi faceva entrare di nascosto a casa sua, di notte fonda, mentre tutti dormivano e liberammo la nostra passione poi, all’alba, andai via ed aspettai con ansia che arrivasse l’ora per accompagnarla al liceo, consumando la colazione al bar al fianco della fermata del 135 nero.

In quella occasione cominciai a dubitare  della sua onestà nei miei riguardi perché non avevo visto i segni della verginità, ma non volevo pensare che mi avesse mentito (mi aveva detto che con Toddi si era limitata solo al petting), avrei ancora accettato di non essere stato il primo per lei, così le chiesi spiegazioni ma lei chiuse l’argomento in maniera perentoria e mostrandosi offesa; ancora una volta, per prospettarmi moderno ed evoluto, mi lasciai convincere che non poteva avermi mentito, però un sottile ed atroce dubbio si era insinuato nella mia mente.
Gelosia a parte, quello che in realtà mi sconvolgeva letteralmente era l’idea della menzogna;  per me era assolutamente devastante, tanto da considerare irrilevante la presunzione che fosse arrivata a me non integra e fino al punto di non poterla accettare (non bisogna dimenticare che avevo solo 17 anni e che questi eventi si svolgevano alla fine degli anni sessanta).
In ogni modo, per farmene una ragione, pensai che in fondo se mi aveva mentito poteva essere solo per il timore che non lo accettassi o per la vergogna di confessarlo; tuttavia  non sarebbe stato difficile per me soprassedere, ma dovevo almeno avere la certezza che non sarebbe più accaduto in futuro.
Per questo le chiesi di prometterci vicendevolmente e solennemente che non ci saremmo mai nascosto alcunché, e che se un giorno ci fossimo accorti di essere attratti da un’altra persona ce lo saremmo confidato prima che il fatto evolvesse.

Quella notte non fu unica, il desiderio di unirci era diventato irrefrenabile e non c’era posto migliore per appagarlo; ormai non aspettavamo altro che arrivasse la sera e poi la notte.
Sua madre aveva capito che l’attrazione tra noi era diventata incontrastabile e probabilmente aveva notato il comportamento inusuale di Lisa.
Una notte venne nella nostra stanzetta quando io ero già arrivato e fui costretto a nascondermi sotto al letto cercando di ridurre al minimo le mie dimensioni, lei si sedette sullo stesso letto per parlare con Lisa ed iniziò una filippica mirata apparentemente a trasmettere un maggiore senso di responsabilità alla figlia.
Le disse che la sentiva lontano, le disse di fare un’analisi critica del nostro rapporto perché in fondo io non rappresentavo altro che un suo momento passionale, ma transitorio, data la nostra età, che per questo non poteva essere sicura dei nostri reciproci sentimenti,  e così di seguito.
Lisa, probabilmente per la prima volta nella sua vita e certamente anche per fare in modo che andasse via al più presto e non ci scoprisse, le rispondeva per monosillabi e con una certa durezza, lasciandole intendere, senza mezzi termini,  che non gradiva la sua interferenza.
Questo atteggiamento della figlia era inaccettabile per lei perché con ogni probabilità, come per la figlia, anche per lei accadeva qualcosa di nuovo e per la prima volta nella sua esistenza;  così, pur di contrastare il comportamento impositivo di Lisa,  da donna vissuta ed esperta quale era, adottò la risorsa più vile di cui disponeva e continuò a parlare piangendo per fare leva sul sentimento materno che definiva sicuramente più stabile ed affidabile di quello che provava per me.
Dal suo tono però appariva evidente che le sue lacrime erano artefatte, forzate, opportuniste, tuttavia insisteva pedantemente e penosamente, non trascurando di sminuire in modo sottile e prudente la mia figura agli occhi della figlia. Infine, non ottenendo riscontro,  finalmente andò a dormire.
Era ovvio che la madre di Lisa avesse capito che la figlia ed io avevamo iniziato a fare sesso, forse sapeva anche che io ero sotto al letto mentre lei le parlava; era altrettanto ovvio che si rendesse conto del fatto che la stava perdendo, almeno relativamente al suo modo possessivo ed esclusivista di viversi quel legame.  Quella notte capii, al di la di ogni ragionevole dubbio,  che avevo visto giusto a casa di mia zia, capii che mi ero fatto una nemica capitale che avrebbe continuato a fare  di tutto per allontanarmi da Lisa.
Quella notte capii che la madre di Lisa si era resa conto del fatto che stava perdendo la sua battaglia perché sapeva che non avrebbe potuto contrastare la forza del richiamo sessuale, e mi chiesi quale altra strategia avrebbe escogitato per raggiungere il suo scopo.
Ischia
Arrivò l’estate del 1969 ed io la seguii ad Ischia con la madre e Davide; in quell’isola andava a trascorre le vacanze con la sua famiglia il secondo fratello della madre di Lisa: Eraldo, con la sua famiglia; Eraldo era un dirigente del warehouse (spaccio alimentare) della  U.S. Navy  di Bagnoli.
Trovai ospitalità nella celletta di un Monastero e trascorremmo giorni indimenticabili, certamente i più intensi della nostra vita in comune: la passione aumentava di vigore e la celletta fu testimone di infiniti, ripetitivi e vertiginosi amplessi; tuttavia non la ritenevamo una profanazione, il nostro era amore, era un sentimento puro.
In quell’estate le velleità di impegnata di sinistra di Lisa sembravano essersi dissolte o quantomeno drasticamente assopite, forse perché diventavamo più maturi, più coscienti.
Ero giunto alla determinazione che Lisa iniziava a guardare in maniera più critica, forse  più libera, gli eventi che caratterizzavano il nostro tempo; probabilmente anche perché lei stessa, ma soprattutto sua madre (questa ab torto collo), avevano accettato il mio avvento nella loro vita ed iniziavano a considerarmi in maniera più seria.

Nella stessa estate i Carri armati russi invadevano Praga, e Yan Palasch ripreso dalle telecamere di tutto il mondo occidentale, si immolava dandosi fuoco in una Piazza, per protesta contro quell’invasione violenta, inutile ed illogica.
Con quel gesto il regime comunista Sovietico riteneva di dare una dimostrazione di forza ai Paesi satelliti che si opponevano alla sua egemonia ed al mondo occidentale che stava a guardare. 
Al contrario, molti osservatori addetti ai lavori ed un po’ di gente comune come me, interpretarono quell’azione come l’inizio della sua inevitabile decadenza.
Io ero comunque molto preoccupato per i fragili equilibri dell’establishment mondiale ed anche Lisa sembrava partecipare a questa preoccupazione.

Poderose flotte navali con porterei e sottomarini nucleari solcavano ininterrottamente i mari di tutto il mondo, stormi di aerei carichi di bombe atomiche sorvolavano giorno e notte i cieli dell’Europa, dei Paesi dell’Est e degli Stati Uniti.
Miriadi di testate nucleari montate su missili di gittata intercontinentale in basi terrestri, nonché da postazioni in orbite geostazionarie erano, e secondo me sono tutt’ora, puntate su questi Paesi.
Accadeva spesso che navi ed aerei si disputassero acque o spazi aerei internazionali, che una nave o un sottomarino si facessero sorprendere in acque territoriali aliene, che un aereo spia fosse abbattuto e, dulcis in fundo, si viveva il terrore che qualche addetto distratto, o in preda ai fumi dell’alcool oppure proiettato nei paradisi artificiali del fumo o di qualche altra droga, premesse un pulsante sbagliato o interpretasse male un ordine, oppure fosse indotto a farlo, e desse inizio ad una reazione di eventi a catena difficilmente arrestabile.
Continuamente ci veniva riferito dai telegiornali o leggevamo sui quotidiani che qualche giorno o qualche settimana prima era stato scongiurato per un soffio il conflitto nucleare. Tutto il pianeta viveva sotto la spada di Damocle della guerra atomica.
Si avvertiva una sorta di provvisorietà incosciente: sembrava che tutti si affrettassero a realizzare al più presto i propri desideri, prima che fosse troppo tardi e nel frattempo, la stragrande maggioranza dei mie simili che frequentavo, si ostinava a non voler neanche disquisire su ciò che accadeva; imperava la riduttiva, rassegnata, stupida e vanagloriosa metafora: the show most go on (lo spettacolo deve continuare).
Influenzato da questi scenari pensavo che i Paesi dell’Europa occidentale nei quali  il comunismo si stava affermando sempre più come una fede religiosa, in particolar modo Italia, Francia e Spagna, potessero costituire per l’Unione Sovietica un appoggio ed una propulsione estremamente importante per una eventuale estensione dell’Impero, la qual cosa avrebbe certamente determinato uno scontro nucleare.
Naturalmente si sperava sulla prevalenza del buon senso; i due blocchi, come di logica, tentavano reciprocamente di estendere la loro influenza politica, tuttavia gli Stati Uniti non invadevano militarmente i loro Paesi alleati per scongiurare il rischio di un eccesso di simpatia verso un modello politico sociale differente, nonostante in alcuni, in particolare il nostro, i comunisti fossero praticamente al potere.
Pensavo che l’invasione di Praga avesse terrorizzato i dirigenti comunisti dei Paesi del Patto Atlantico evidenziando, al contempo, la maggiore tolleranza della democrazia (se così si poteva definire), ma queste restavano comunque illazioni: non avevo sufficienti conoscenze politiche per fare previsioni attendibili e le mie deduzioni erano il risultato di ragionamenti elementari quantunque, secondo me, logici.

Oggi quei tempi sono definiti gli anni della cortina di ferro o della guerra fredda, ma la definizione non rende sufficientemente la paura nella quale si viveva ogni giorno per le enormi probabilità di un incidente che avrebbe potuto segnare l’inizio dell’apocalisse.



















Note:
1)   Iliade (3, 65.).

2)   Nihil cogitantium jucundissima vita est.

3)  Singulas dies singulas vita puta.  

4)  Dino Segre, alias Pitigrilli, era uno scrittore e giornalista ebreo italiano del ventennio fascista. Era un dissacratore per eccellenza, se la prendeva con tutto e con tutti.  Fu un ateo convinto fino al giorno in cui conobbe Padre Pio da Pietrelcina il quale, pur non conoscendolo e non avendolo mai visto, lo chiamò e lo indicò tra centinaia di persone che stavano assistendo ad una sua Funzione Religiosa alla quale Pitigrilli si era fatto convincere a partecipare.  Da quel momento divenne credente e rinnegò i suoi scritti antecedenti alla conversione. Io avevo letto tutti i suoi libri da ragazzo ed il suo stile incisivo, diretto ed estremamente raffinato e colto mi avevano affascinato.

5)   Commovent homines non res, sed rebus opiniones.


















































* 
… Saverio e Lisa sono sempre più sorpresi; incredibilmente anche questo capitolo descrive la loro storia e con dovizia di dettagli che i due avevano dimenticato ma che leggendo dal resoconto del cavernicolo sono riaffiorati alla loro memoria e gli appaiono identici.
Anche i riferimenti storici sono uguali; nel mondo parallelo al quale avevano avuto un breve accesso gli eventi si ripetevano, dunque, pressoché immutabili: per fortuna anche in quella dimensione Hitler non aveva vinto la seconda guerra mondiale.
Saverio focalizza l’attenzione sull’influenza nefasta della madre di Lisa nel loro rapporto e sulle loro divergenze ideologiche che hanno appena letto nella descrizione degli eventi riguardanti l’alter ego, ed è su quelle influenze e su quelle divergenze che individua l’inizio del loro “distacco” psicologico.
Approfittando di questa opportunità trova la forza per delineare un profilo psicologico di Lisa e di sua madre; lo fa alludendo all’altra Lisa con la convinzione che in questo modo per la sua sarebbe stato più facile riconoscere le distorsioni che hanno inquinato il loro rapporto.
I due iniziano una discussione aperta e sincera su questi argomenti; Lisa appare disponibile ad ammettere che la sua omonima avrebbe dovuto avere maggiore lungimiranza, anche maggiore fiducia nel suo Saverio ed adottare modelli comportamentali diversi.

Questa ammissione rende euforico Saverio il quale, adesso più che mai, è curioso di scoprire il seguito per vedere in che direzione si è evoluta la loro storia in quella dimensione parallela.