Napoli
Valle
Caudina
Così, finalmente, arrivò il giorno in cui sarei andato
a Napoli ma con uno scopo molto diverso da quello che mi spingeva ad andarci
con Enzo e Paolo: questa volta andavo ad incontrare la donna che mi era stata
destinata e gli elettrotreni
della Valle Caudina, rumorosi, brutti e scomodi, divennero silenziosi,
bellissimi e comodissimi.
A quella età andare a Napoli da solo (da solo ci andavo per la prima volta) aveva per me un
po’ il sapore, la vivacità, la carica di un avvenimento; andarci con gli amici
costituiva un’esperienza avventurosa perché con loro si compartivano i timori,
le incertezze, le decisioni e soprattutto le indecisioni, si compartiva tutto e
ci si infondeva forza vicendevolmente; da solo era tutta un’altra storia.
Come mi accade da sempre in circostanze di particolare
stress emotivo, durante le quali la mia percezione dello spazio/tempo subisce
strane distorsioni, il viaggio mi apparve interminabilmente lungo, ma allo
stesso tempo incredibilmente breve.
Il treno della Valle Caudina attraversa luoghi molto
belli per arrivare a Napoli, fatta eccezione per l’ultimo tratto che va da Cancello alla stazione di Napoli Centrale.
La pianura però inizia da S. Felice a Cancello, pochi
chilometri prima di un altro paese che si chiama Cancello, ma è da quest’ultimo
che il paesaggio assume un aspetto più metropolitano.
Da Benevento a S. Martino e fino a Arpaia, si
attraversano invece le campagne fertilissime ed i boschi selvaggi di quella
parte dell’altopiano sannita, non a caso i latini definivano terra felix quelle estensioni, insieme a
quelle partenopee.
Sull’altopiano sannita le boscaglie si alternano
continuamente alle campagne, poi il
treno passa aderente alle pendici del monte Taburno, quello che forma le
estremità (nel senso di piedi) della Dormiente
del Sannio fino ad Arpaia, quindi inizia la discesa attraverso la barriera
rocciosa che si erge dai limiti della pianura del golfo di Napoli e che forma il lembo dell’altopiano sul quale si
trova parte della provincia di Benevento.
Questo alternarsi tra paesaggi morfologicamente
eterogenei ha uno strano effetto sul viaggiatore che li percorre e che li osserva
dall’interno di un treno, almeno lo aveva per me.
Sono passati moltissimi anni dall’ultima volta che ho
attraversato quei luoghi con la Valle Caudina, eppure quelle sensazioni, quelle
impressioni, restano ancora vivide nella mia memoria. Ancora adesso ricordo
quando, passando di continuo da un
paesaggio organizzato ed ordinato dalla mano dell’uomo ad uno selvaggio,
avevo l’impressione di essere stato proiettato lontano dalla civiltà che pure
riaffiorava repentinamente, quantunque inaspettatamente fuori da essi, come per
magia, creando un contrasto straordinario.
Mentre sembrava di essersi irrimediabilmente sperduti
in chissà quale parte dimenticata del pianeta ed il treno restava l’unico
legame tangibile e rassicurante con la civiltà, appariva qualche manufatto a
dimostrare la presenza dell’uomo, che però scompariva immediatamente come se
fosse stato assorbito da un’altra dimensione.
Lo stesso accadeva con le Stazioni dei piccoli paesi
che si trovavano sulla tratta (Tufara, S. Martino valle Caudina, Arpaia),
alcune completamente invase dalla vegetazione, le quali sembravano spuntare dal
nulla come manifestazioni arcane e solo quando il treno aveva quasi ultimato la
sua frenata.
Ogni volta che il treno si apprestava a fare la sua
sosta in una di quelle stazioni, sembrava che stessimo atterrando in un
Continente diverso, che avessimo terminato una traversata oceanica;
l’impressione era la stessa che si percepisce nei Paesi tropicali, dove i
centri urbani sono immersi nella vegetazione, che sembra conquistarli,
includerli, perché sovrana, prorompente
ed incontenibile.
Potrebbe sembrare un po’ forzata questa descrizione,
nondimeno il paragone con i Paesi tropicali, calza perfettamente; inoltre
questi paesini, che pure sono molto simili tra loro, mostrano differenze
sostanziali in tutti i sensi: un esempio emblematico è la differenza di entità
che si avverte tra la stazione di Arpaia e quella di S. Maria a Vico, le quali
sembrano gli avamposti di due civiltà diverse.
La prima è situata sul lembo dell’altopiano a cui
accennavo prima e la seconda al di sotto di esso, cioè all’inizio della pianura
del golfo di Napoli: sono quelle alture che sembrano delimitare nettamente due mondi, due civiltà, due
culture.
Arpaia/S. Maria a Vico è il tratto più lungo che
percorre l’elettrotreno (non so se è così ancora oggi), circa venti minuti
senza stazioni intermedie, quasi tutti in discesa; questo percorso si svolgeva
costeggiando con una certa lentezza il fianco del rilievo fin quando non si
arrivava in pianura.
Quei venti minuti sembravano un viaggio cosmico,
perché quando finalmente si arrivava a S. Maria, si percepiva immediatamente di trovarsi in un
contesto che aveva subito un’influenza
culturale diversa da quella che si avvertiva e si percepisce ancora oggi ad
Arpaia.
Arpaia è condizionata dalla cultura sannita, prevalentemente
alpestre, pastorale, mentre da S. Maria si iniziava ad avvertire (probabilmente
è così ancora oggi) l’influenza della
cultura più mediterranea; le stesse condizioni climatiche sembravano accentuare
o contribuire a queste differenze.
Spesso, in particolare durante i mesi freddi, fino ad
Arpaia si viaggiava nella nebbia e con una umidità gelida e penetrante, oppure
in un cielo plumbeo e piovoso.
Quando non si poteva viaggiare seduti per
l’affollamento e si sostava nello spazio adiacente alle portiere, oppure si
occupavano i posti a sedere vicino alla porta scorrevole che separava il vano
dell’uscita, ci si raggomitolava come porcospini e si attendeva con ansia il
momento della partenza del treno, per sentirsi investiti dall’ondata di calore
che veniva dall’ambiente più interno.
Approssimandosi a S. Maria e soprattutto a S. Felice a
Cancello (poco distante) il tempo migliorava, il sole trovava la forza di
perforare le nubi e la maggiore quantità di luce dava la sensazione di sentirsi
più vivi.
Davvero si viveva l’illusione di uscire dall’inverno
di un Paese temperato e di entrare nell’eterna estate di un Paese tropicale;
l’espressione dei compagni di viaggio sembrava diventare man mano più allegra,
più euforica, mentre ci avvicinavamo
alla pianura, a volte sembrava addirittura di sentire l’odore del mare del golfo
già a S. Felice.
Così si vanificava la sensazione dell’inverno
inesorabile e veniva relegata nel ricordo di un passato immediato che diventava
tanto più lontano e remoto, quanto più fredda e penetrante era stata la nebbia
e l’umidità che avevamo appena lasciato: … quella gelida, glaciale umidità.
Viaggiavo, dunque, in un treno silenzioso, bellissimo e
comodissimo che mi portava ad incontrarmi con la donna della mia vita; era
estate e questa stagione è portatrice di vivacità e dinamismo dovunque.
Era lontano, ancora lontano il freddo del mio
inverno con Lisa, ed io stavo andando a raccogliere il dono degli dèi: “non si devono rifiutare i doni degli dèi, quelli che essi stessi solo
donano e che nessuno può acquisire con la volontà”. (1)
A S. Felice mi sembrava già di sentirla; lei
nemmeno sapeva dell’esistenza di questo
paesino, ma io mi ritrovavo ai margini di un contesto che in qualche modo mi
sembrava le appartenesse, così ne avvertivo fortemente la presenza, come se una
parte di lei vivesse lì: in quegli alberi, in quelle case, in quelle strade.
I pensieri che si erano affollati nella mia mente con
la prepotenza di geyser, il giorno in cui mi sedetti sulla cuspide del monte
d’Argento, riaffioravano adesso con lo stesso vigore, ma questa volta non con
la stessa tumultuosità, e si alternavano a riflessioni contemplative sulla
natura dei luoghi che attraversavo, sulla loro storia, sui grandi pensatori,
guerrieri, avventurieri, che li avevano vissuti durante il tempo.
A quanti momenti di piaceri e di entusiasmi, a quante
sofferenze, dolori, angosce avevano assistito inermi ed indifferenti quei
luoghi? Se “il susseguirsi ed il precedersi degli eventi è illusorio”, se “il passato dipende dal futuro tanto quanto
il futuro dipende dal passato”, essi erano ancora lì, prigionieri del tempo
come me, forse per questo mi sembrava di
percepirli.
Pensare mentre viaggiavo, soprattutto navigando tra
pensieri in apparenza contrastanti, mi preparava all’incontro con Lisa, mi
fortificava, mi rallegrava; Sofocle diceva che “il pensare è di gran lunga la prima felicità”, ed io stavo
pensando, quindi ero felice.
Ma poi si contraddiceva dicendo: “la vita più
gioiosa consiste nel non pensare a nulla”; (2) non mi trovavo d’accordo con questa sua ultima
affermazione, forse non ancora, perché avvertivo tangibilmente un forte senso
di felicità e di euforia incontrastabili.
Ero invece molto più in sintonia con l’affermazione di
Seneca: “considera ogni giorno come una
vita”, (3) perché da quando avevo conosciuto Lisa, ogni giorno
aveva per me il valore di una intera esistenza e quel giorno, in particolare,
mi sembrava di viverne più di una parallelamente.
A Cancello mi sembrava di trovarmi già alla
periferia della metropoli perché appena
oltrepassata la stazione, ci si immetteva nel doppio binario della confluenza nazionale;
da quel momento il treno aumentava notevolmente la sua velocità, tanto da dare
l’impressione che si sarebbe disintegrato da un momento all’altro, e non faceva
altre fermate fino a Napoli.
Eravamo usciti dai magnifici paesaggi selvaggi e per
lunghi interminabili quindici minuti, incrociavamo treni di lunga percorrenza
attraversando un continuum di abitazioni di ogni tipo, la cui concentrazione
aumentava mano a mano che ci avvicinavamo alla metropoli.
Mi sentivo già con lei quando apparve il grattacielo
della stazione di Napoli, ma il treno si apprestava a fermarsi perché non era
ancora libero il binario di accesso, cosa che accadeva di frequente perché si
prediligeva il passaggio di convogli più importanti, ma questa volta, quella
sosta inutile alla quale ci preparavamo mi risultava insopportabile: … possibile
che gli addetti non capissero che il mio appuntamento doveva avere la
precedenza su tutto?
Poi mi sembrò che se ne fossero resi conto perché la
sosta durò solo qualche minuto e non fu neanche totale, nel senso che il treno
aveva solo rallentato a passo d’uomo; evidentemente, data l’ora (dovuta al
ritardo), il conducente aveva capito che non ci avrebbero fermato del tutto e
finalmente entrammo nella Stazione.
Poco dopo salivo su di un 135 nero inverosimilmente colmo, anzi
letteralmente traboccante di persone: io
viaggiai, con altri, sul primo gradino, per due lunghissime fermate, con la
portiera aperta e tenendomi aggrappato al sostegno posizionato al centro degli
stessi gradini: era la prima volta che facevo una simile esperienza.
Era la mia prima volta, per me che venivo da una città
di provincia ordinata, tranquilla e calma, che mi immergevo in maniera così
profonda in quello che mi appariva come un contesto caotico, chiassoso e
schizofrenico.
Impiegammo circa tre quarti d’ora per arrivare alla clinica
Pascal, poco meno di quanto avevo impiegato per arrivare a Napoli con la Valle
Caudina.
Avevo chiesto ad un passeggero di indicarmi la
fermata, perché era impossibile arrivare vicino al conducente, tanto era la
ressa, e poco prima di arrivare fui avvertito, così guardai fuori col cuore che
batteva come un tamburo e vidi Lisa con
Davide alla fermata di fronte che guardavano verso l’autobus.
Notai subito Lisa, d’altra parte sarebbe stato
impossibile il contrario, ma la vidi diversa: indossava una parrucca di capelli
rossastri che le arrivava fino alle spalle.
Quasi non la riconoscevo, se non fosse stato per
Davide che le teneva la mano, ma poi i suoi tratti inconfondibili, unici, si
rivelarono, si imposero alla mia vista e per un attimo mi sembrò che non fosse
passato neanche un secondo da quando ci eravamo lasciati a Scauri.
Mi sorrideva mentre attraversavo la strada per
raggiungerla; dalla sua espressione dedussi
che non era
cambiato nulla tra noi, anche
Davide sorrideva contento di rivedermi; sentii inequivocabilmente che mi
appartenevano.
Le domandai subito il motivo di quel cambiamento, lei
rispose chiedendomi se mi piaceva. Le
dissi che non mi dispiaceva ma che preferivo vederla con la sua magnifica
chioma, e lei tolse immediatamente quell’artefatto, così mi riapparve la
splendida la leggiadra Squaw indiana che mi aveva abbagliato la prima volta che
la vidi procedere fiera ed altera verso il gruppo che l’aspettava.
Quel cambiamento inaspettato però, mi aveva scosso e
per una frazione di secondo infinitesimale ma incidente, si affollarono nella
mia mente pensieri di ogni genere: qual’era il messaggio subliminale che voleva
trasmettermi occultando e trasformando una parte molto importate della sua
persona? Voleva forse dirmi che lei non
era solo quello che io avevo visto?
Voleva trasmettermi un aspetto diverso della sua
sensualità modificando la sua immagine con una capigliatura di forma e colore
diverso? soprattutto col rosso che è,
appunto, un forte richiamo alla sensualità;
che cos’altro era, dunque, oltre quello che avevo visto?
Infine optai per la spiegazione più semplice e
convenzionale: tutte le donne, come diceva Pitigrilli, (4) almeno una volta nella vita si tingono i capelli
oppure indossano una parrucca, per pura, naturale e banale vanità, e questa era
la volta di Lisa.
Restava
tuttavia difficile per me accettare questa tesi perché ne ravvisavo un
forte contrasto con la sua natura colta
e raffinata, con le sue tendenze
politiche ed etiche di sinistra progressista: Lisa frequentava il liceo classico
di matrice marxista Gian Battista Vico,
il quale aveva
fama di essere il più avanguardista ed anche il più spregiudicato di Napoli e
della Campania.
In ogni modo questi pensieri non avevano tanta
importanza, ero con lei, sentivo che il suo amore irradiava verso di me, mi
sembrava che tutto ciò che ci circondava, era lì per noi, in funzione di noi,
non poteva esistere senza di noi: era l’amore che da noi emanava che ne
giustificava ed esaltava l’esistenza.
Quella giornata passò velocemente girovagando nei
dintorni e ricordando il tempo, anzi una intera vita, trascorsa insieme a
Scauri; poi lei e Davide tornarono a casa ed io andai a pranzare in una
pizzeria vicino, nella quale sarei tornato spesso in futuro.
Si era fatta sera ed era arrivata la mesta ed oscura
ora del distacco, resa ancora più malinconica ed oscura dalla consapevolezza
del fatto che era solo la prima di chissà quante atre, ed io ero tornato alla stazione,
la quale però, adesso, mi appariva insopportabilmente triste, vuota ed inutile, oltre ché infinitamente lontano da lei.
L’ultimo treno della Valle Caudina per Benevento
partiva da Napoli alle 20.55 ed arrivava alle 21,30 circa, dopo c’erano solo
altre due possibilità, ma con i treni delle Ferrovie dello Stato, i quali però,
impiegavano due ore e tre quarti abbondanti per arrivare a Benevento: un
viaggio interminabile.
Questi treni facevano un tragitto completamente diverso:
passavano da Aversa, seguendo la linea nazionale che portava verso il nord, poi
Caserta e Maddaloni, ed infine si
inoltravano all’interno, allacciandosi alla tratta Roma Bari, sul cui percorso
ci sono i paesi della provincia di Benevento:
Solopaca, Telese, Ponte Casalduni e finalmente la capitale sannita.
Quella sera, come tante altre che si sarebbero
succedute, arrivai alla Stazione con un congruo anticipo che trascorsi incollato al telefono durante il
tempo di attesa del treno.
Sarebbe alquanto noioso trascrivere quello che ci
dicevamo in così tanto tempo e tutte le volte che le telefonavo dalla stazione,
eppure ogni volta quel tempo sembrava inaccettabilmente breve, tanto che spesso
perdevo l’ultimo treno della Valle Caudina per prolungarlo ed arrivavo a
Benevento nientemeno che alle due della notte, con l’ultimo treno delle
Ferrovie dello Stato.
Bohémienne
Era cominciato il mio peregrinare tra Napoli e
Benevento, che sarebbe durato un anno e mezzo circa, durante il quale vivevo
più a Napoli che a Benevento.
Durante i primi mesi, ossia da agosto fino alla fine
di settembre, per stare il più possibile con lei e vicino a lei, mi trattenevo
a Napoli per due o tre giorni di seguito dormendo in strada, all’aperto, sulle panchine di qualche piazza del Vomero,
quando naturalmente le condizioni atmosferiche lo permettevano; raramente
dormivo in qualche albergo di infima categoria, e quindi di basso costo, nei
dintorni della stazione.
Di tanto in tanto per concedere a qualcuno
l’opportunità di dormire decentemente per una notte, ripartivo la stanza con qualche vagabondo che
mi capitava di conoscere dormendo sulle panchine.
Qualche volta incontravo qualcuno che aveva perso
l’ultimo treno per tornare a casa e che di fronte alla prospettiva di passare
la notte in strada, si accontentava di
ripartire le spese della stanza con uno sconosciuto.
Più spesso invece incontravo persone che non avevano
nulla, persone alle quali dovevo anche offrire un panino perché non mangiavano
da giorni.
In quel periodo evitavo di disturbare le mie zie, due
sorelle di mia madre che vivevano nei pressi della stazione ferroviaria ed al
Vomero. Lo evitavo anche perché avrei dovuto assoggettarmi ad orari e regole
che mi avrebbero limitato, ma successivamente iniziai ad accettare la loro
ospitalità perché con l’avvento dell’inverno diventava troppo pesante dormire
all’aperto, anche se per proteggermi dal freddo della notte andavo a cercare
riparo sulle panchine delle stazioni
della metropolitana.
Inizialmente sceglievo le stazioni dei rioni più
eleganti della città perché meno frequentate dai personaggi equivoci e
pericolosi della notte; andavo in quella di piazza Amedeo, per esempio, vicino
alla quale c’è la funicolare che la collega al Vomero e quindi più comoda per
arrivare da Lisa, ma nella quale era quasi impossibile pernottare, anche perché
troppo vicina alla superficie e quindi fredda.
Trascorsero così numerose ed interminabili notti
praticamente all’addiaccio, dormendo al massimo due o tre ore, fin quando fui
costretto a scegliere la stazione metropolitana di piazza Garibaldi la quale,
trovandosi al di sotto della superficie della stazione centrale, era
particolarmente protetta e calda. Per questo era diventata un vero e proprio
dormitorio nel quale si incontrava gente di ogni tipo; inoltre, fino alle tre
del mattino era controllata assiduamente dagli agenti della Polfer
(polizia ferroviaria).
C’era però, qualche controindicazione: la prima è che
si trovava molto lontana dal Vomero, ma questo non era particolarmente
importante, la seconda era che fino alle tre circa del mattino si poteva
dormire sulle panchine, ma non distesi, o non completamente, altrimenti
interveniva la polizia, ma solo per svegliare, perché fino a quell’ora c’era
ancora traffico ed era possibile che ci si fosse appisolati per aspettare qualche treno.
Si dormiva quindi, con un solo occhio chiuso, per
evitare di essere tentati di stendersi, ma anche per il vociare dei viaggiatori
e per il passaggio continuo di treni rumorosissimi, ma si dormiva, perché lì
almeno non c’era il timore di essere aggrediti durante il sonno.
Il problema vero si presentava dopo le tre del mattino
perché a quell’ora la sorveglianza era allentata, ma era diminuito drasticamente
anche il traffico di treni e passeggeri e finalmente ci si poteva distendere, …
se si riusciva ad accaparrarsi un’intera panchina.
A quell’ora la tentazione di abbandonarsi alla fase REM era fortissima ed
incontrollabile, neanche la paura dell’aggressione era sufficiente a
resisterle, così inevitabilmente si scivolava nel sonno profondo.
Questa fase durava mediamente un’ora e mezza, prima
dell’avvento di qualche agente della polfer per il quale adesso quelli che
dormivano erano diventati vagabondi senza fissa dimora, non essendoci più treni
da aspettare fino alle sei del mattino; così eravamo svegliati con uno
scossone, non sempre garbato, anzi
spesso violento, che ci ridestava di soprassalto e ci costringeva ad andare
via.
Io ero giovane e forte e la mia resistenza non
conosceva limiti, inoltre per me restavano comunque episodi occasionali, mi
alzavo quindi di scatto, impressionando il poliziotto, e spesso lo rimproveravo
per i modi, ma lo facevo soprattutto per gli altri, gli habitué, i veri vagabondi
senza dimora che vedevo alzarsi con
fatica e barcollando,
indeboliti dalla vita bohémienne.
Qualche volta ho rischiato di essere arrestato, ma ho
anche trovato poliziotti comprensivi ai quali dispiaceva di essere costretti a
svolgere quell’ingrato compito, però c’erano le telecamere alle quali non
potevano sottrarsi.
Frequentando assiduamente la stazione centrale di
Napoli, già nell’autunno di quell’anno mi ero fatto diversi amici: erano
prevalentemente giovani studenti come me, di buone famiglie, i quali
trascorrevano le loro ore libere adoperandosi nella caccia delle ragazze straniere che venivano a visitare la capitale
partenopea ed a cercarli, attratte dal fascino dell’amante latino.
Come ho già avuto modo di accennare, quella era
l’epoca dei figli dei fiori: gli hippy, che professavano, tra l’altro, l’amore
libero e di ragazze nord europee in cerca di avventura ne arrivavano in
quantità a Napoli.
Di tanto in tanto qualche amico mi invitava a pranzo a
casa sua e qualcun altro a dormire, ma ormai accettavo sempre più spesso
l’ospitalità delle mie zie e dei miei cugini, più o meno miei coetanei; dagli zii
ero trattato come un loro figlio e quando seppero che frequentavo Napoli, mi
proibirono di farmi ospitare dagli amici e mi rimproverarono, scandalizzati,
per aver dormito all’aperto.
Zia Lina era la primogenita delle sorelle di mia
madre, abitava vicino alla stazione centrale con zio Nicola, suo marito, ed era
la madre di Sandra e Giovanna, le mie
cugine che avevano assistito alla lite di Scauri.
Zia Alba invece abitava al Vomero, nelle vicinanze di piazza Arenella con
zio Nino, suo marito ed i suoi tre figli: Ada, Pino e Rosanna.
Più spesso mi fermavo da zia Lina, perché le mie cugine
conoscevano Lisa e volevano seguire da vicino l’evolvesi del nostro rapporto; partecipavano
con entusiasmo alle mie esultanze, ai
miei dubbi, alle mie pene, perché avevano capito che la nostra era una storia
molto particolare, molto forte.
Verso la fine dell’autunno,
con le scuole già aperte, la situazione
mutò, ormai stavo a mezza pensione a casa delle mie zie; mezza nel senso che
non era tutti i giorni, ma piena perché pranzavo e dormivo da loro.
Qualche volta Lisa ed io ci
davamo appuntamento a casa di zia Lina perché a Lisa faceva piacere incontrarsi con le mie cugine.
Spesso andavo a prenderla
all’uscita del liceo ed andavo a pranzo a casa sua, dove il nonno Rodrigo
preparava anche per me; la madre tornava dal lavoro dopo le 17.
La nonna Eleonora, invece, era
sempre meno presente e meno autosufficiente, la sua memoria peggiorava di
giorno in giorno, ormai non riconosceva più neanche i suoi figli ed i suoi
nipoti, ma non ha mai smesso di riconoscere suo marito, neanche per un istante,
fino alla fine.
Che uomo eccezionale quel
vecchio! Accudiva sua moglie in tutto,
anche nel darle da mangiare, cambiarle e lavarle gli indumenti, come con un
bimbo, perché anche le sue funzioni fisiologiche erano compromesse.
Controversie
ideologiche
«Nel momento
in cui la stessa esistenza del pianeta è in pericolo, il ruolo di un poeta o
della poesia possono sembrare ridicoli.
Il Movimento è la cresta di un'onda più
profonda, l'apparizione di una coscienza più larga, una coscienza più biologica
che politica. Una nuova percezione del politico, appare più lentamente,
indissociabile dall'ecologia.
La
percezione ideologica del politico, il marxismo, non offre più alternative di
quante ne offra il capitalismo di fronte al disastro biologico che ci minaccia.
Ciò detto,
dato che i poeti amano correre nei boschi e rotolarsi nell'erba, è normale che
siano i primi a sentirsi coinvolti dalla violenza sulla natura ricoperta di
escrementi di robot».
Allen
Ginsberg:
Pensieri raccolti
da Pierre Joris, per la rivista Actuel, nel 1971.
Nell’inverno che seguiva i
ragazzi degli ultimi anni del suo liceo organizzarono uno sciopero al quale
Lisa voleva partecipare; io avevo posto il mio veto alla sua partecipazione per
gelosia perché presupponeva l’occupazione dell’istituto per due o tre giorni e
notti, ma lei fece di tutto per convincermi che era suo dovere partecipare.
Così, per prospettarmi come moderno ed evoluto, mi
lasciai convincere ed acconsentii.
Come ho accennato all’inizio, in quel tempo l’occidente
era condizionato in maniera determinante dall’ideologia comunista la quale
attecchiva prevalentemente in quella
parte della gioventù più acculturata che, mancando di esperienza e di una
visione più aperta delle vicende, ma soprattutto della natura umana, era da
essa completamente plagiata.
Lisa apparteneva a quell’ideologia, anche lei come i
suoi compagni, era convinta che il comunismo fosse la forma ultima e più
evoluta di governo e manifestava la certezza che fosse iniziata l’era
dell’affermazione planetaria e predestinata di quel pensiero.
Anche lei non sembravano affatto rendersi conto di
quanto fossero manovrati da menti politiche infinitamente più sofisticate,
evolute, prive di scrupoli e da ottusi
vassalli come i suoi insegnanti, tutti rigorosamente comunisti.
Questi giovani, pur anelando ai cambiamenti radicali
influenzati dalle stesse spinte esistenziali caratterizzate prevalentemente dagli
atteggiamenti anticonformisti e ribelli che erano alla base del movimento
della beat generation, diversamente da
questi non potevano o non volevano accettare tale radicalità fino all’estremo
perché, con ogni evidenza, presupponeva una inversione di rotta totale e senza
ritorno.
Io, al contrario, come ho accennato in precedenza, ero
ideologicamente un hippy, un figlio dei fiori, ero molto vicino alle filosofie
orientali; non riconoscevo un partito che aveva confezionato un’idea per me, io
ero libero per definizione e ritenevo l’ideologia comunista una condizione
transitoria, un provvisorio passaggio di stato.
Gli hippy non si identificavano e non riconoscevano la
paternità o la sottomissione ad un’ideologia politica, non cercavano e non
avevano necessità di un capo in
quanto essi stessi erano espressione di libertà, di compassione e di rispetto
per le altrui esigenze.
La presunzione dei giovani impegnati di sinistra, così
si definivano allora, di essere nel giusto al di la di ogni dubbio e di ogni
ragione, li rendeva penosi e ridicoli ai miei occhi, al pari degli integralisti
islamici o cattolici.
Epitteto diceva: “non sono le
cose ad influire sull’animo umano, ma la convinzione che noi abbiamo di esse”(5), e Lisa aveva
la stessa presunzione che avevano i suoi compagni di liceo; impiegai poco per
convincermi che in effetti il loro era un vero e proprio fanatismo politico.
Dell’ideologia comunista io accettavo genericamente i principi di base
ma la mia sensibilità ecologica, trasmessami dal movimento hippy, costituiva la
prima e forse più importante critica a quel sistema per il quale questo aspetto
non rivestiva la benché minima importanza.
Io mi trovavo in assoluta sintonia con quello che aveva già
riconosciuto Ginsberg a proposito della “percezione ideologica del politico”,
quando affermava che “il marxismo, non offre più alternative di
quante ne offra il capitalismo di fronte al disastro biologico che ci minaccia”.
Notavo, inoltre, che al di la delle propagande tendenziose e per me farisaiche che in quei tempi ci
erano propinate con bombardamenti continui attraverso tutti i mezzi di
comunicazione, il comunismo era eccessivamente limitante della libertà e dei
diritti individuali, anche perché assegnava allo Stato la funzione
inaccettabile di padre padrone assoluto ed infallibile per definizione.
Lei ovviamente non era
d’accordo con le mie interpretazioni, ancora meno lo era con la mia maggiore
affinità ideologica con i figli dei fiori; questo costituiva per me motivo di
profondo sconcerto, forse avrei dovuto valutare con maggiore lungimiranza le
nostre divergenze concettuali ed attuare una diversa strategia per la
costruzione del nostro futuro comune, o addirittura avrei dovuto proporre di
concederci un periodo di riflessione.
Ma l’ipotesi di allontanarmi
da lei col rischio di perderci, non era per me neanche immaginabile; in ogni
caso Lisa non partecipò a quello sciopero, non perché non lo volessi io, ma
perché glielo impedì sua madre.
Intanto però, tra noi si era
creata una grave frattura che avrebbe costituito la base per futuri disaccordi,
alla quale io non diedi la giusta valenza, la giusta rilevanza, e probabilmente
neanche lei, ma che si era insinuata
come un silent killer.
Non eravamo ancora
sufficientemente maturi per non lasciarci influenzare dalle divergenze
ideologiche; se quell’episodio si fosse verificato un decennio dopo,
probabilmente non avrebbe avuto le stesse ripercussioni.
D’altra parte quelle
divergenze non erano cosa da poco, presupponevano una diversità strutturale
profonda, una differenza di impostazioni
e di programmazione radicale.
In ogni modo la spinta
irrazionale, quella del mondo inconoscibile di Kant era, e per ora restava, prepotente,
soverchiante rispetto alla frattura, … almeno per me.
Groddek
Verso la fine di
quell’inverno, all’età di 18 anni, mi
ammalai di endocardite reumatica, un’affezione molto grave a quell’epoca che mi
costrinse ad evitare sforzi fisici ed emozioni di qualunque genere per qualche
settimana.
Il mio cuore si era fermato
per metà, avevo avuto il blocco del ventricolo sinistro e qualunque azione mi
costava fatica; mio zio Lillino, il
medico ricercatore che mi curò ed al quale debbo la mia sopravvivenza e la mia
guarigione, dopo aver visto le analisi cliniche mandategli da mio padre,
telefonò per dire che avrei dovuto restare fermo il più possibile, avrei dovuto
evitare qualunque sforzo e che mi avrebbero dovuto portare da lui, ad Avezzano,
in provincia dell’Aquila, quanto prima.
In quel Paese rimasi ospite a
casa sua per 15 giorni, durante i quali mio zio, conoscendo il forte legame che
avevo con Lisa e per ridurre la sofferenza derivante dal distacco, mi disse di
usare il telefono per tutto il tempo che volevo per comunicare con lei.
In quei giorni fui
vivisezionato, mi sembrava di essere diventato una cavia da laboratorio; si
susseguivano consulti medici a catena tra colleghi esperti in diverse
discipline, perché avevo detto a mio zio
che se non fossi guarito completamente mi sarei suicidato.
Non potevo sopportare l’idea
di vivermi un’esistenza a metà, perché il mio cuore aveva subito una ferita
piuttosto seria, paragonabile a quella di un infarto e le probabilità che tutto
tornasse come prima erano piuttosto remote.
Mio zio prese molto sul serio
i miei propositi suicidi ed alla fine del vivisezionamento
mi disse che avrebbe tentato una cura
d’urto sperimentale prevalentemente a base di salicilati e cortisonici
in quantità massicce ma opportunamente equilibrate.
La cura presupponeva la mia
piena collaborazione perché avrei dovuto restare immobile, a letto, per una
decina di giorni, non dovevo neanche alzarmi per andare in bagno perché in quel
lasso di tempo avrei corso grave rischio di embolia.
Mi disse che se avesse
funzionato come previsto mi sarebbe rimasto solo un lieve rigurgito della
valvola mitralica, ma ininfluente, che mi avrebbe accompagnato per il resto
della vita.
Trent’anni dopo facevo un cheek
up generale nell’unità coronaria dell’Ospedale Civile di Rapallo ed il referto
medico, nella parte che riguardava l’organo cardiaco, diceva: lieve rigurgito
della valvola mitralica, alla mia richiesta di maggiori spiegazioni, il medico
mi disse che era ininfluente.
Passarono quei giorni ed anche
gli altri durante i quali dovevo stare a letto, le mie condizioni miglioravamo
visibilmente ma ero ancora ad alto rischio.
Erano trascorsi troppi giorni
lontano da Lisa e senza di lei stavo molto male, il rischio per me aumentava;
in quella circostanza poteva costarmi cara la sofferenza dovuta alla distanza,
tuttavia era in subordine rispetto alla mia necessità di capire perché il mio
cuore si era quasi fermato, o meglio, perché si era spezzato, lacerato, ferito.
Non potevo non cercare un
nesso causale, una spiegazione plausibile; questa volta non si trattava di “rimuovere le scorie di una convinzione
etica o concettuale errata”, come quando mi ritirai in meditazione nei tre
giorni antecedenti la partenza per Scauri.
Questa volta ero convinto che
gli effetti devastanti della scoperta di
differenze sostanziali tra me e Lisa, per me inaccettabili, erano stati
direttamente riversati su una parte anatomica del mio corpo: quella che è
simbolicamente più direttamente collegata ai sentimenti, cominciai quindi a
scoprirne il nesso causale del quale andai a ricercare la conferma nel Libro dell’ES di Gorge Groddek, il medico
tedesco, allievo di Freud, padre della psicosomatica, il quale diceva: “ci può
essere un momento nella vita di un uomo in cui quest’uomo si incontra con un
proiettile, e non è un caso”.
La frattura ideologica
verificatasi con Lisa mi apparve evidentemente correlazionata a quello che era
accaduto al mio cuore, anzi a quello che stupidamente avevo permesso che
accadesse al mio cuore.
Zia
Alba
Ero convinto, e lo sono
tuttora, di avere scoperto la causa psicologica della mia endocardite, ma come
dicevo ero ancora ad alto rischio, dovevo rivedere Lisa, sentire il contatto
delle sue labbra, contemplare la sua espressione mentre mi guardava, sentirmi
dire che per lei esistevo solo io, sentirmi ripetere quello che mi diceva
spesso e cioè che senza di me sarebbe impazzita, avevo bisogno di queste cose,
senza di esse diventavo ipocondriaco e depresso.
Così mio padre, che mi teneva
sotto costante osservazione, consigliato da mio zio, al quale riferiva
continuamente i mie stati fisici e psicologici,
nonostante avessi ancora dovuto aspettare qualche settimana per iniziare
a muovermi gradualmente, scelse il male minore e mi portò a Napoli per incontrarla a casa di
mia zia Alba, al Vomero (non c’era ancora sufficiente confidenza tra i nostri
genitori per poter andare a casa sua).
Dopo quasi un mese finalmente la potevo rivedere, l’ansia mi
divorava, ero convinto di trovarla ad aspettarmi da mia zia, invece si fece
attendere alcune ore durante le quali telefonai ripetutamente a casa sua senza
risposta; non esistevano ancora i telefoni cellulari e non avevo altro modo di
rintracciarla. Infine arrivò solo quando ormai era tempo di tornare a Benevento
ed accompagnata dalla madre, entrambe si presentarono visibilmente seccate.
Lisa e sua madre sapevano benissimo i rischi che stavo
correndo e dei quali mio padre le aveva rese edotte, sapevano che l’emozione di
rivederla poteva costarmi cara se lei si fosse dimostrata distaccata in quel
frangente particolare, ma non vi erano motivi di pensarlo.
Ciononostante, in quel
delicato frangente, Lisa mi trattò come
un estraneo suscitando l’ira funesta di mio padre che riuscì a stento a
contenersi per non trattare male entrambe, sebbene non trascurò di trasmettere
la sua disapprovazione; qualcosa era cambiato tra di noi, ma non riuscivo a
capire cosa e soprattutto perché.
Per il poco tempo che stettero
da mia zia, Lisa restò praticamente attaccata alla madre, sembrava ipnotizzata,
non parlava e mi guardava come se fossi portatore di una terribile malattia
infettiva; tuttavia sentivo che avrebbe voluto avvicinarsi, ed in effetti per
un po’ ci avvicinammo ma controllati dallo sguardo cattivo della madre che
sembrava ridimensionare drasticamente il suo slancio, anzi lo ridimensionava di
fatto, perché Lisa non si lasciò andare a nessuna particolare effusione.
Quello che avrebbe dovuto
essere un piacevole incontro ed un’opportunità di avvicinamento tra i nostri
genitori, perdipiù in territorio neutro o quasi, aveva assunto il carattere di
una visita inspiegabilmente formale e come tale si svolse; tuttavia a nessuno
era sfuggito il fatto che quella impronta era stata voluta e programmata dalla
madre di Lisa e tutti, compreso me stesso, si interrogarono sulle possibili
motivazioni, sebbene senza manifestarlo, per evitare di ferirmi.
Poi la mia visione interiore
mi staccò dalla scena e potei osservare dall’esterno, come un estraneo, senza
più coinvolgimenti emotivi, come uno spettatore che guarda un film: intuii che
la madre di Lisa aveva usato in qualche modo la mia grave malattia per
convincere la figlia che in ogni caso non avrebbe potuto avere un futuro con me
perché il mio fisico era compromesso irrimediabilmente.
Intuii che aveva vilmente
approfittato di quella occasione per tentare di distruggere l’immagine e l’amore che Lisa aveva per me e
non riuscivo a capire perché, per quale motivo lo facesse.
Per la prima volta vidi uno
aspetto della madre di Lisa che non avrei mai immaginato: vidi un essere
spietato e crudele che pensava solo a soddisfare il suo smisurato ego
individualista e menefreghista, manipolando senza umanità e compassione le
altrui vite.
Vidi una belva il cui solo
scopo era disseminare dolore e sofferenza in esseri innocenti, ingenui ed innocui come noi, e mi sentii perduto.
Mio padre aveva compreso che
avevo subito un colpo molto forte; tornando a Benevento, con estrema cautela,
mi disse qualcosa che avrei fatto molto bene a prendere nella giusta
considerazione perché avrei cambiato il corso della mia esistenza e mi sarei
risparmiato una vita di dubbi, menzogne, umiliazioni e tradimenti.
Mi disse che Lisa non provava per me tutto l’amore di cui
ero convinto, che era una fredda calcolatrice e che io per lei rappresentavo
poco più che un semplice strumento; ma soprattutto dipinse sua madre
definendola una donna arida e senza
sentimenti, perché attribuiva a lei l’atteggiamento distaccato di Lisa,
quantunque Lisa se ne fosse lasciata rendere complice.
In ogni caso non lo potevo accettare e nemmeno credevo
che la madre di Lisa riuscisse nel suo intento, perché avevo visto che Lisa era
dibattuta ed ero certo che la sua spinta nei miei riguardi restava molto forte
ed avrebbe avuto il sopravvento.
Con molta difficoltà assorbii
l’ulteriore colpo inflittomi a casa di mia zia, ma il mio inconscio aveva
deciso che dovevo sopravvivere, e non solo, aveva deciso che dovevo dimostrare
a madre e figlia che ero immortale,
come l’araba fenice che risorge dalle
sue stesse ceneri: come avrei potuto dimostrarlo se non guarendo velocemente e
totalmente al contrario di quanto tutti si aspettassero? … e così accadde.
La mia guarigione fu
eccezionalmente veloce, tanto che quando andai a fare la prima visita di
controllo da un cardiologo di Benevento amico di mio zio, con stupore mi disse
che non avrebbe creduto a quello che avevo avuto se non fosse stato per i
referti di mio zio, perché non appariva assolutamente nulla.
La causa, ovvero le differenze
sostanziali tra me e Lisa, tuttavia restavano,
ma avevo raggiunto la profonda convinzione che probabilmente sarebbe
stata solo una questione di tempo e prima o poi Lisa avrebbe fatto un salto
evolutivo ed avrebbe capito: avrebbe tagliato il cordone ombelicale che la
teneva legata a sua madre, avrebbe anche guardato con maggiore senso critico le
sue credenze ed avrebbe ceduto alla forza del mio amore per lei.
Gradualmente cominciavo
però a rendermi conto di essere molto
meno maturo di lei dal punto di vista sentimentale, quantunque all’inizio del
nostro rapporto fossi convinto del contrario perché la deludente esperienza
vissuta durante la mia infanzia con la ragazzina alla quale ho fatto
riferimento nel primo capitolo, mi aveva persuaso dell’inutilità di cercare
l’amore di una donna.
Cominciavo a rendermi conto
della maggiore freddezza di Lisa con
riferimento al nostro rapporto, del suo maggiore controllo, della sua capacità
di programmare a lungo termine, anche in relazione alle vicende sentimentali
che ci riguardavano, cosa per me impensabile.
Il suo atteggiamento
cominciava a mutare, forse anche perché io tendevo a soffocarla con l’eccesso della mia presenza, dato che
ero entrato nel vortice del dubbio e della gelosia e cominciavo a chiederle
spiegazioni sul suo cambiamento alle quali lei opponeva sistematicamente il suo
diniego, talvolta categorico, nella
migliore delle ipotesi si trincerava dietro una resistenza passiva che a me
risultava oltremodo oltraggiosa.
Avevo sottovalutato la radicalità dei convincimenti
politici di Lisa e le nostre profonde diversità strutturali si imponevano alla
mia visuale con sempre maggiore forza.
Esse erano causa di indicibile sofferenza per me
perché quantunque mi sforzassi di indurla a riflettere, quantunque mi
prodigassi nel farle notare le contraddizioni profonde ed evidenti di quello
che professava, non riuscivo a smuoverla minimamente dai suoi convincimenti,
non riuscivo a fare la benché minima breccia nella sua protervia.
Volturno
Passava l’inverno e l’avvento della primavera sembrava
infondere maggiore forza e maggiore disponibilità al dialogo, all’apertura,
alla benevolenza; la mia malattia era già relegata nei ricordi, insieme con la
frattura verificatasi qualche mese prima tra noi; la reciproca attrazione
sembrava essersi rinnovata con maggiore vigore, a discapito del suo essere di
sinistra ed in maniera inversamente proporzionale ad esso.
Probabilmente era riuscita a farmi accettare anche
dalla madre.
Un giorno andammo a pesca con la mia famiglia in un
luogo incantevole del fiume Volturno e Lisa ed io ci appartammo in una macchia
tra due rigagnoli del fiume limpidi placidi e profumatissimi, che rendevano quel
luogo simile ad un quadro d’arte naïf;
eravamo completamente isolati, ma circondati da una natura splendida e
luminosa, con i suoi dolci rumori, la sua gradevole voce determinata dallo
scrosciare quieto dell’acqua, dal canto stridulo e melodioso degli uccelli e
dal rumore squillante e chiaro provocato dai nostri movimenti sulle pietre
arrotondate dal lungo viaggio nel greto.
Eravamo pronti per il nostro primo, puro atto d’amore
e lei si distese in un letto di sabbia fine e dorata, circondato da rami di
verde intenso e dal forte odore di resina che facevano da cornice ed isolavano
da eventuali, quanto improbabili sguardi inopportuni.
Osservavo con bramosia le sue forme giovani, nude ed eterne mentre lei, intimidita,
volgeva altrove il suo sguardo, poi la curiosità ebbe il sopravvento ed anche
lei guardò il mio corpo, atletico e forte,
per un attimo.
La sua curiosità mi insospettì e stupidamente commisi
l’errore di chiederle se l’avesse già fatto; naturalmente lei ebbe un moto di
stizza e così si dissolse l’incanto.
Quel giorno non accadde nulla, ma alcuni giorni dopo
lei mi faceva entrare di nascosto a casa sua, di notte fonda, mentre tutti
dormivano e liberammo la nostra passione poi, all’alba, andai via ed aspettai
con ansia che arrivasse l’ora per accompagnarla al liceo, consumando la
colazione al bar al fianco della fermata del 135 nero.
In quella occasione cominciai a dubitare della sua onestà nei miei riguardi perché non
avevo visto i segni della verginità, ma non volevo pensare che mi avesse
mentito (mi aveva detto che con Toddi si era limitata solo al petting), avrei
ancora accettato di non essere stato il primo per lei, così le chiesi
spiegazioni ma lei chiuse l’argomento in maniera perentoria e mostrandosi
offesa; ancora una volta, per prospettarmi moderno ed evoluto, mi lasciai convincere che non poteva
avermi mentito, però un sottile ed atroce dubbio si era insinuato nella mia
mente.
Gelosia a parte, quello che in
realtà mi sconvolgeva letteralmente era l’idea della menzogna; per me era assolutamente devastante, tanto da
considerare irrilevante la presunzione che fosse arrivata a me non integra e
fino al punto di non poterla accettare (non bisogna dimenticare che avevo solo
17 anni e che questi eventi si svolgevano alla fine degli anni sessanta).
In ogni modo, per farmene una ragione, pensai che in fondo se mi aveva
mentito poteva essere solo per il timore che non lo accettassi o per la
vergogna di confessarlo; tuttavia non
sarebbe stato difficile per me soprassedere, ma dovevo almeno avere la certezza
che non sarebbe più accaduto in futuro.
Per questo le chiesi di prometterci vicendevolmente e solennemente che non ci
saremmo mai nascosto alcunché, e che se un giorno ci fossimo accorti di essere
attratti da un’altra persona ce lo saremmo confidato prima
che il fatto evolvesse.
Quella notte non
fu unica, il desiderio di unirci era diventato irrefrenabile e non c’era posto
migliore per appagarlo; ormai non aspettavamo altro che arrivasse la sera e poi
la notte.
Sua madre aveva
capito che l’attrazione tra noi era diventata incontrastabile e probabilmente
aveva notato il comportamento inusuale di Lisa.
Una notte venne
nella nostra stanzetta quando io ero già arrivato e fui costretto a nascondermi
sotto al letto cercando di ridurre al minimo le mie dimensioni, lei si sedette
sullo stesso letto per parlare con Lisa ed iniziò una filippica mirata
apparentemente a trasmettere un maggiore senso di responsabilità alla figlia.
Le disse che la
sentiva lontano, le disse di fare un’analisi critica del nostro rapporto perché
in fondo io non rappresentavo altro che un suo momento passionale, ma
transitorio, data la nostra età, che per questo non poteva essere sicura dei
nostri reciproci sentimenti, e così di
seguito.
Lisa, probabilmente
per la prima volta nella sua vita e certamente anche per fare in modo che
andasse via al più presto e non ci scoprisse, le rispondeva per monosillabi e
con una certa durezza, lasciandole intendere, senza mezzi termini, che non gradiva la sua interferenza.
Questo
atteggiamento della figlia era inaccettabile per lei perché con ogni
probabilità, come per la figlia, anche per lei accadeva qualcosa di nuovo e per
la prima volta nella sua esistenza;
così, pur di contrastare il comportamento impositivo di Lisa, da donna vissuta ed esperta quale era, adottò
la risorsa più vile di cui disponeva e continuò a parlare piangendo per fare
leva sul sentimento materno che definiva sicuramente più stabile ed affidabile
di quello che provava per me.
Dal suo tono però appariva
evidente che le sue lacrime erano artefatte, forzate, opportuniste, tuttavia
insisteva pedantemente e penosamente, non trascurando di sminuire in modo
sottile e prudente la mia figura agli occhi della figlia. Infine, non ottenendo
riscontro, finalmente andò a dormire.
Era ovvio che la
madre di Lisa avesse capito che la figlia ed io avevamo iniziato a fare sesso,
forse sapeva anche che io ero sotto al letto mentre lei le parlava; era
altrettanto ovvio che si rendesse conto del fatto che la stava perdendo, almeno
relativamente al suo modo possessivo ed esclusivista di viversi quel
legame. Quella notte capii, al di la di
ogni ragionevole dubbio, che avevo visto
giusto a casa di mia zia, capii che mi ero fatto una nemica capitale che
avrebbe continuato a fare di tutto per
allontanarmi da Lisa.
Quella notte capii
che la madre di Lisa si era resa conto del fatto che stava perdendo la sua
battaglia perché sapeva che non avrebbe potuto contrastare la forza del
richiamo sessuale, e mi chiesi quale altra strategia avrebbe escogitato per
raggiungere il suo scopo.
Ischia
Arrivò l’estate del 1969 ed io la seguii ad Ischia con
la madre e Davide; in quell’isola andava a trascorre le vacanze con la sua
famiglia il secondo fratello della madre di Lisa: Eraldo,
con la sua famiglia; Eraldo era un dirigente del warehouse (spaccio alimentare) della U.S. Navy di Bagnoli.
Trovai ospitalità nella celletta di un Monastero e
trascorremmo giorni indimenticabili, certamente i più intensi della nostra vita
in comune: la passione aumentava di vigore e la celletta fu testimone di
infiniti, ripetitivi e vertiginosi amplessi; tuttavia non la ritenevamo una
profanazione, il nostro era amore, era un sentimento puro.
In quell’estate le velleità di impegnata di sinistra
di Lisa sembravano essersi dissolte o quantomeno drasticamente assopite, forse
perché diventavamo più maturi, più coscienti.
Ero giunto alla determinazione che Lisa iniziava a
guardare in maniera più critica, forse
più libera, gli eventi che caratterizzavano il nostro tempo;
probabilmente anche perché lei stessa, ma soprattutto sua madre (questa ab torto collo), avevano accettato il
mio avvento nella loro vita ed iniziavano a considerarmi in maniera più seria.
Nella stessa estate i Carri armati russi invadevano
Praga, e Yan Palasch ripreso dalle
telecamere di tutto il mondo occidentale, si immolava dandosi fuoco in una
Piazza, per protesta contro quell’invasione violenta, inutile ed illogica.
Con quel gesto il regime comunista Sovietico riteneva
di dare una dimostrazione di forza ai Paesi satelliti che si opponevano alla
sua egemonia ed al mondo occidentale che stava a guardare.
Al contrario, molti osservatori addetti ai lavori ed
un po’ di gente comune come me, interpretarono quell’azione come l’inizio della
sua inevitabile decadenza.
Io ero comunque molto preoccupato per i fragili
equilibri dell’establishment mondiale ed anche Lisa sembrava partecipare a
questa preoccupazione.
Poderose flotte navali con porterei e sottomarini
nucleari solcavano ininterrottamente i mari di tutto il mondo, stormi di aerei
carichi di bombe atomiche sorvolavano giorno e notte i cieli dell’Europa, dei
Paesi dell’Est e degli Stati Uniti.
Miriadi di testate nucleari montate su missili di
gittata intercontinentale in basi terrestri, nonché da postazioni in orbite
geostazionarie erano, e secondo me sono tutt’ora, puntate su questi Paesi.
Accadeva spesso che navi ed aerei si disputassero
acque o spazi aerei internazionali, che una nave o un sottomarino si facessero
sorprendere in acque territoriali aliene, che un aereo spia fosse abbattuto e,
dulcis in fundo, si viveva il terrore che qualche addetto distratto, o in preda
ai fumi dell’alcool oppure proiettato nei paradisi artificiali del fumo o di qualche altra droga, premesse
un pulsante sbagliato o interpretasse male un ordine, oppure fosse indotto a
farlo, e desse inizio ad una reazione di eventi a catena difficilmente
arrestabile.
Continuamente ci veniva riferito dai telegiornali o
leggevamo sui quotidiani che qualche giorno o qualche settimana prima era stato
scongiurato per un soffio il conflitto nucleare. Tutto il pianeta viveva sotto
la spada di Damocle della guerra atomica.
Si avvertiva una sorta di provvisorietà incosciente:
sembrava che tutti si affrettassero a realizzare al più presto i propri
desideri, prima che fosse troppo tardi e nel frattempo, la stragrande
maggioranza dei mie simili che frequentavo, si ostinava a non voler neanche
disquisire su ciò che accadeva; imperava la riduttiva, rassegnata, stupida e
vanagloriosa metafora: the show most go
on (lo spettacolo deve continuare).
Influenzato da questi scenari pensavo che i Paesi
dell’Europa occidentale nei quali il comunismo
si stava affermando sempre più come una fede religiosa, in particolar modo
Italia, Francia e Spagna, potessero costituire per l’Unione Sovietica un
appoggio ed una propulsione estremamente importante per una eventuale
estensione dell’Impero, la qual cosa avrebbe certamente determinato uno scontro
nucleare.
Naturalmente si sperava sulla prevalenza del buon
senso; i due blocchi, come di logica, tentavano reciprocamente di estendere la
loro influenza politica, tuttavia gli Stati Uniti non invadevano militarmente i
loro Paesi alleati per scongiurare il rischio di un eccesso di simpatia verso
un modello politico sociale differente, nonostante in alcuni, in particolare il
nostro, i comunisti fossero praticamente al potere.
Pensavo che l’invasione di Praga avesse terrorizzato i
dirigenti comunisti dei Paesi del Patto
Atlantico evidenziando, al contempo, la maggiore tolleranza della
democrazia (se così si poteva definire), ma queste restavano comunque
illazioni: non avevo sufficienti conoscenze politiche per fare previsioni
attendibili e le mie deduzioni erano il risultato di ragionamenti elementari
quantunque, secondo me, logici.
Oggi quei tempi sono definiti gli anni della cortina di ferro o della guerra fredda, ma la definizione non
rende sufficientemente la paura nella quale si viveva ogni giorno per le enormi
probabilità di un incidente che avrebbe potuto segnare l’inizio dell’apocalisse.
Note:
1)
Iliade (3, 65.).
2)
Nihil cogitantium jucundissima vita est.
3) Singulas dies singulas vita puta.
4) Dino Segre, alias Pitigrilli, era uno scrittore e giornalista ebreo italiano del
ventennio fascista. Era un dissacratore per eccellenza, se la prendeva con
tutto e con tutti. Fu un ateo convinto
fino al giorno in cui conobbe Padre Pio da Pietrelcina il quale, pur non
conoscendolo e non avendolo mai visto, lo chiamò e lo indicò tra centinaia di
persone che stavano assistendo ad una sua Funzione Religiosa alla quale
Pitigrilli si era fatto convincere a partecipare. Da quel momento divenne credente e rinnegò i
suoi scritti antecedenti alla conversione. Io avevo letto tutti i suoi libri da
ragazzo ed il suo stile incisivo, diretto ed estremamente raffinato e colto mi
avevano affascinato.
5) Commovent homines non res, sed rebus opiniones.
… Saverio e Lisa
sono sempre più sorpresi; incredibilmente anche questo capitolo descrive la
loro storia e con dovizia di dettagli che i due avevano dimenticato ma che
leggendo dal resoconto del cavernicolo sono riaffiorati alla loro memoria e gli
appaiono identici.
Anche i riferimenti
storici sono uguali; nel mondo parallelo al quale avevano avuto un breve
accesso gli eventi si ripetevano, dunque, pressoché immutabili: per fortuna
anche in quella dimensione Hitler non aveva vinto la seconda guerra mondiale.
Saverio focalizza
l’attenzione sull’influenza nefasta della madre di Lisa nel loro rapporto e
sulle loro divergenze ideologiche che hanno appena letto nella descrizione
degli eventi riguardanti l’alter ego, ed è su quelle influenze e su quelle
divergenze che individua l’inizio del loro “distacco” psicologico.
Approfittando di
questa opportunità trova la forza per delineare un profilo psicologico di Lisa
e di sua madre; lo fa alludendo all’altra Lisa con la convinzione che in questo
modo per la sua sarebbe stato più facile riconoscere le distorsioni che hanno
inquinato il loro rapporto.
I due iniziano una
discussione aperta e sincera su questi argomenti; Lisa appare disponibile ad ammettere
che la sua omonima avrebbe dovuto avere
maggiore lungimiranza, anche maggiore fiducia nel suo Saverio ed adottare
modelli comportamentali diversi.
Questa ammissione
rende euforico Saverio il quale, adesso più che mai, è curioso di scoprire il
seguito per vedere in che direzione si è evoluta la loro storia in quella
dimensione parallela.